LA BOTTEGA DELLO ZINGARO ...(grazie della visita) BOTTEGA GANG-Le parole per dire tante cose graffiando la Vita -by Gruppo Selvaggio" Chi copia commette una violazione del regolamento ( Forum ) "

CARLO MICHELSTAEDTER

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    00 19/01/2010 17:39


    CARLO MICHELSTAEDTER


    POESIE


    FONTE



    Se camminando vado solitario
    per campagne deserte e abbandonate
    se parlo con gli amici, di risate
    ebbri, e di vita,

    se studio, o sogno, se lavoro o rido
    o se uno slancio d'arte mi trasporta
    se miro la natura ora risorta
    a vita nuova,

    Te sola, del mio cor dominatrice
    te sola penso, a te freme ogni fibra
    a te il pensiero unicamente vibra
    a te adorata.

    A te mi spinge con crescente furia
    una forza che pria non m'era nota,
    senza di te la vita mi par vuota
    triste ed oscura.

    Ogni energia latente in me si sveglia
    all'appello possente dell'amore,
    vorrei che tu vedessi entro al mio cuore
    la fiamma ardente.

    Vorrei levarmi verso l'infinito
    etere e a lui gridar la mia passione,
    vorrei comunicar la ribellione
    all'universo.

    Vorrei che la natura palpitasse
    del palpito che l'animo mi scuote...
    vorrei che nelle tue pupille immote
    splendesse amore. -

    Ma dimmi, perché sfuggi tu il mio sguardo
    fanciulla? O tu non lo comprendi ancora
    il fuoco che possente mi divora?...
    e tu l'accendi...

    Non trovo pace che se a te vicino:
    io ti vorrei seguir per ogni dove
    e bever l'aria che da te si muove
    né mai lasciarti. -

    31 marzo 1905


    * * *

    Poiché il dolore l'animo m'infranse
    per me non ebbe più la vita un fiore...
    e pure inconscio iva cercando amore
    l'animo offeso.

    Ahi ti vidi e a te il pensier rivolsi
    a te che pura sei siccome un giglio...
    ... Le lacrime mi sgorgano dal ciglio
    invirilmente.

    Oh mia fanciulla, oh tu non hai compreso
    di quanto amore io t'ami. Ed un dolore
    nuovo, più intenso mi attanaglia il cuore
    che tu feristi.

    Se m'ami Elsa a che mi fai soffrire?
    Tu della vita mia unico raggio
    tu che sola m'infondi quel coraggio
    che mi fa vivo!

    Lo sguardo mio non t'ha saputo dire
    non t'han saputo dir le mie parole
    quello che dice all'universo il sole,
    amore! amore!?

    3 aprile 1905



    Alba. Il canto del gallo

    Salve, o vita! dal cielo illuminato
    dai primi raggi del sorgente sole
    all'azzurra campagna!

    Salve, o vita! potenza misteriosa
    fiume selvaggio, poderoso eterno
    ragione e forza a tutto l'universo
    salve o superba!

    Te nel silenzio gravido di suoni
    te nel piano profondo o palpitante
    cui nuovi germi agitano il seno
    te nel canto lontano degli uccelli
    nel frusciar delle nascenti piante;
    te nell'astro che sorge trionfante
    ed in fra muti sconsolati avelli
    sento vibrare

    E ribollir ti sento nel mio sangue
    mentre il sole m'illumina la faccia
    e dalle labbra mi prorompe il grido:

    viva la vita!

    1° giugno 1905



    La notte

    Tace la notte intorno a me solenne
    le ore vanno e sfilan le memorie
    siccome un nero e funebre convoglio.

    Del cielo nelle oscurità remote
    nell'ombra amica che con man soave
    le grevi forme della chiesa lambe,
    nell'ombra amica che gl'uomini culla
    col lento canto della pace eterna
    vedo di forme strane scatenarsi
    una ridda veloce e affascinante
    vedo la mente umana abbacinata
    chinar la fronte...

    Ma il mio pensiero innalzasi sdegnoso
    e squarcia il manto della notte bruna
    libero, e vola, -
    vola alla luce pura trionfante
    vola al sole del vero, dove i forti
    stan combattendo l'immortale agone
    cinti le terapie d'agili corone,
    vola esultante.



    La scuola è finita!

    È giunta l'ora del distacco, è giunta;
    io vi lascio sedili riscaldati
    aule sapienti portici affollati
    ora e per sempre!

    Ansie e battaglie e faticose veglie
    liete sconfitte e facili vittorie
    e voi quaderni carchi di memorie
    io v'abbandono.

    Libero sono dalla tirannia
    d'ogni minuto; sono rotti i ceppi
    che per lunghi anni rallentar non seppi.
    Libero sono!

    Libero, e innanzi a me s'apre la vita
    con gli orizzonti vasti ed intentati
    e coi premi lontani ed agognati
    nei sogni antichi.

    Freme nel petto l'animo convulso:
    sete di gloria e sete di sapere
    desiderio d'azione e di piacere
    in me ribolle.

    In un amplesso solo poderoso
    vorrei legare a me tutta la terra
    vincere il fato e la fortuna ch'erra
    cieca nel mondo.

    * * *

    Ma un brivido mi corre per le membra,
    la vita è fredda e piena di sgomento,
    triste isolato debole mi sento
    vo' ritornare.

    Vo' ritornare ai banchi della scuola
    alla diuturna noia, alle catene
    a quel fetore che facea sì bene,
    ai professori.

    Amici, or vedo quanto abbiam perduto;
    della nostra esistenza, calda un'onda
    nel buio del passato si sprofonda
    inesorato.

    Con quel legame che ci die' comuni
    ore di gioia ed ore di sconforto
    anche un periodo della vita è morto
    in quest'istante.

    Ma non dobbiam però chinar la fronte.
    Col ferro in pugno verso l'ideale
    ci batterem con animo leale!
    In alto i cuori!

    E se fra le battaglie della vita
    saremo vinti forse, da lontano
    ci volgeremo a stringerci la mano
    ... addio compagni!

    Gorizia, 25 giugno 1905



    Sibila il legno nel camino antico
    e par che tristi rimembranze chiami
    mentre filtra sottil pei suoi forami
    vena di fumo.

    O caminetto antico quanto è triste
    che nella nera bocca tua rimanga
    la legna che non arde e par che pianga
    di desiderio,

    ma dal profondo della sua poltrona
    socchiusi gli occhi, il biondo capo chino
    stese le mani al fuoco del camino
    Nadia ride.



    I

    Cade la pioggia triste senza posa
    a stilla a stilla
    e si dissolve. Trema
    la luce d'ogni cosa. Ed ogni cosa
    sembra che debba
    nell'ombra densa dileguare e quasi
    nebbia bianchiccia perdersi e morire
    mentre filtri voluttuosamente
    oltre i diafani fili di pioggia
    come lame d'acciaio vibranti.

    Così l'anima mia si discolora
    e si dissolve indefinitamente
    che fra le tenui spire l'universo
    volle abbracciare.

    Ahi! che svanita come nebbia bianca
    nell'ombra folta della notte eterna
    è la natura e l'anima smarrita
    palpita e soffre orribilmente sola
    sola e cerca l'oblio.


    II

    "Guardi dove cammina! o 'che 'gli è cieco?".
    M'erutta in faccia con fetor di vino
    un popolano dondolando l'anca.
    In vasta curva costeggiando il fiume
    tremola ancor la luce dei fanali
    e l'Arno scorre sonnacchioso e grigio,
    l'acque melmose.
    Spicca dei colli ancor la massa oscura
    e San Miniato avvolto nella nebbia
    ombra nell'ombra, -
    fiaccola rossa dai camini neri
    batte nell'aria, e l'alito affannoso
    ferve di vita.
    E risponde dall'anima mia triste
    un'ansiosa brama di vittoria
    ed un bisogno amaro di carezze:
    forza incosciente - fiaccola fumosa.

    III

    O vita, o vita ancor mi tieni, indarno
    l'anima si divincola, ed indarno
    cerca di penetrar il tuo mistero
    cerca abbracciare in un amplesso immenso
    ogni tuo aspetto. -
    Amore e morte, l'universo e '1 nulla
    necessità crudele della vita
    tu mi rifiuti.
    Febbraio 1907



    I

    A che mi guardi fanciulla con gli occhi pieni di luce,
    con gli occhi azzurri profondi ed al volto ti sale una fiamma?
    Non ha sole la mia giovinezza, non conta gli anni il mio core
    l'anima mia dolorosa non sa le primavere.
    Fanciulla perché ti soffermi? perché t'avvicini al mio core?
    perché o fanciulla l'avvolgi nel fuoco tuo giovanile?
    Fanciulla è freddo il mio core, è freddo il mio core e lontano,
    non sente l'alito ardente della tua giovane vita.

    II

    Quando pei blandi tramonti, per gli ampi meriggi infocati
    sui pallidi volti sussurra amor violente lusinghe,
    e quando maggio riarde il petto all'uomo che vive
    il core mio tace o fanciulla. -
    E quando pel fosco piano cui plumbeo il cielo incombe
    divampa la fiamma ribelle sospinta dal vento dell'odio
    dell'odio doloroso delle moltitudini vinte
    ed arde ogni giovane core e piange nell'aria fumosa
    lo spasimo disperato, e suona l'urlo più alto
    quando frementi si tendono gli archi di tutte le vite
    esso tace o fanciulla.
    E quando la mamma mi trae dalle aride ciglia una stilla
    e quando la morte mi tocca, mi stringe il core convulso
    e caldo m'ottenebra gli occhi il sangue di quanti ho amato
    esso tace ancora o fanciulla.
    E quando m'irride la folla e quando m'innalza la lode
    e quando sfacciata mi sento la forza dei giovani anni
    il cor mio tace o fanciulla un superbo infinito silenzio.

    Pasqua 1907



    Senti Iolanda come è triste il sole
    e come stride l'alito del vento -
    passa radendo i vertici fioriti
    un nembo irresistibile.

    Senti, è sinistro il grido degli uccelli
    vedi che oscura è l'aria
    ed è fuliggine
    nel raggio d'ogni luce e dal profondo
    sembra levarsi tutto quanto è triste
    e doloroso nel passato e tutte
    le forze brute in fremito ribelle
    contaminarsi irreparabilmente.

    Scompose il nembo irreparabilmente
    il tuo sorriso,
    Iolanda, e mi percorse
    con ignoto terrore il core altero. -
    Che è questo che s'attarda insidioso
    nel nostro sguardo allor che senza fine
    immoto intenso dalle nere ciglia
    arde di vicendevole calore?
    Perché di fosca fiamma la pupilla
    s'accende nel languore disperato?
    Perché non ride amore
    come rideva amico nelle tenui
    sere di maggio?
    È più forte, più forte
    questa torbida fiamma di desio
    e mentre tutto intorno a me precipita
    mentre crolla nel vortice funesto
    ogni affetto, ogni fede, ogni speranza
    sbatte le rosse lingue e s'attorciglia
    inestinguibile.

    E più, e più, e più nel cielo tumido
    arde l'ansia selvaggia e dolorosa
    purché io sugga dai tuoi occhi il fascino
    purché io senta le tue mani fremere
    purché io colga alla tua bocca fervida
    la voluttà infinita del tuo bacio
    Ïolanda, e l'ebbrezza infinita. -

    Giugno 1907



    Che ti valse la forte speranza, che ti valse la fede che non crolla
    che ti valse la dura disciplina, l'ansia che t'arse il core
    o mortale che chiedi la tua sorte, se dopo il tormento diuturno
    se dopo la rinuncia estrema - non muore la brama insaziata
    la forza bruta e selvaggia, se ancora nel tedio muto
    insiste e vivo ti tiene; - perché tu senta la morte
    tua ogni istante nell'ora che lenta scorre e mai finita
    perché tu speri disperando e attenda ciò che non può venire
    perché il dolore cieco più forte sia del dolore che vide
    la stessa vanità di sé stesso? - Tu sei come colui nella notte
    vide l'oscurità vana ed attese da dio chiedendo la divina luce
    e d'ora in ora il fiero cuor nutrendo
    di più forte volere e la speranza
    esaltando più viva, quando il giorno
    con la luce pietosa
    alla vita mortale
    ogni cosa mortale riadulava
    non ei si scosse che con l'occhio fiso
    vedeva pur la notte senza stelle. -
    Come il tuo corpo che il sole accarezza
    gode ed accoglie avido la luce
    perché non anche l'animo rivolgi
    ai lieti e cari giochi? Vedi intorno
    fin dove giunge il guardo, la campagna
    ride alla luce amica



    Amico - mi circonda il vasto mare
    con mille luci - io guardo all'orizzonte
    dove il cielo ed il mare
    lor vita fondon infinitamente. -
    Ma altrove la natura aneddotizza
    la terra spiega le sue lunghe dita
    ed il sole racconta a forti tratti
    le coste cui il mare rode ai piedi
    ed i verdi vigneti su coronano.
    E giù: alle coste in seno accende il sole
    bianchi paesi intorno ai campanili
    e giù nel mare bianche vele erranti
    alla ventura. -

    A me d'accanto, sullo stesso scoglio
    sta la fanciulla e vibra come un'alga,
    siccome un'alga all'onda varia e infida
    ÊÈÏÔ&Mac226;·&Mac245;Â&Mac221;·. -
    S'avviva al sole il bronzo dei capelli
    ed i suoi occhi di colomba tremuli
    guardano il mare e guardano la costa
    illuminata. -
    Ma sotto il velo dell'aria serena
    sente il mistero eterno d'ogni cosa
    costretta a divenire senza posa
    nell'infinito.
    Sente nel sol la voce dolorosa
    dell'universo, - e l'abisso l'attira
    l'agita con un brivido d'orrore
    siccome l'onda suol l'alga marina
    che le tenaci aggrappa
    radici nell'abisso e ride al sole. -

    Amico io guardo ancora all'orizzonte
    dove il cielo ed il mare
    la vita fondon infinitamente.
    Guardo e chiedo la vita
    la vita della mia forza selvaggia
    perch'io plasmi il mio mondo e perché il sole
    di me possa narrar l'ombra e le luci -
    la vita che mi dia pace sicura
    nella pienezza dell'essere.

    E gli occhi tremuli della colomba
    vedranno nella gioia e nella pace
    l'abisso della mia forza selvaggia -
    e le onde varie della mia esistenza
    l'agiteranno or lievi or tempestose
    come l'onda del mar l'alga marina
    che le tenaci aggrappa
    radici nell'abisso e ride al sole. -
    Pirano, agosto 1908



    Il canto delle crisalidi
    Vita, morte,
    la vita nella morte;
    morte, vita,
    la morte nella vita.

    Noi col filo
    col filo della vita
    nostra sorte
    filammo a questa morte.

    E più forte
    è il sogno della vita -
    se la morte
    a vivere ci aita

    ma la vita
    la vita non è vita
    se la morte
    la morte è nella vita

    e la morte
    morte non è finita
    se più forte
    per lei vive la vita.

    Ma se vita
    sarà la nostra morte
    nella vita
    viviam solo la morte

    morte, vita,
    la morte nella vita;
    vita, morte,
    la vita nella morte. -



    Dicembre

    Scende e sale senza posa
    nebbia e pioggia greve e scura,
    nella nebbia la natura
    si distende accidiosa.

    Goccia, goccia lieve chiara
    va sicura al suo destin
    scende e spera, e vanno a gara
    altre gocce senza fin.

    Giù l'attende terra molle
    dove all'altre unita va
    a formar le pozze putride
    per i campi e le città.

    Nella pozza riflettete
    gocce unite in società
    grigio in grigio terra e cielo
    per i campi e le città.

    Ma la noia il disinganno
    fa le gocce sollevar
    ed il bene che non sanno
    van col vento a ricercar.

    Dalle pozze dalle valli
    sale il velo e in alto va,
    non ha forma né colore
    l'affannosa umidità.

    Nella nebbia la natura
    si distende accidiosa,
    scende e sale senza posa
    pioggia e nebbia fastidiosa.

    Vigilia di Natale 1909



    Nostalgia

    Ma un vento lieto giù dalla montagna
    invade la natura senza luce
    che per pioggia e per nebbia si dissolve
    e delle nubi oscure la continua
    trama dirompe, e la diffusa nebbia
    leva ed in lembi bianchi la sospinge
    giocosamente;
    e ride il sole volto ad occidente
    ed i monti lontani e le colline
    boscose e la pianura
    risuscita ugualmente illuminando
    nella lor gloria varia
    delle ben note forme all'abitante.
    Ma splendono più chiare e più serene
    festevolmente,
    poiché più luminosi si rimandan
    i generosi a lor raggi del sole.
    Riluce il monte e il piano
    e il ciel riluce
    di verde luce presso all'orizzonte,
    e in alto nell'azzurro
    l'ultime nubi fuggono ed il sole
    con lieto riso
    tinge di rosa gli orli alle fuggenti.

    Ahi! come tutta la natura in breve
    si rasserena
    nella pacata luce,
    e la pena passata e il lungo tedio
    dei giorni grigi oblia: ché solo a gioco
    s'era offuscata: ed or con nuovo gioco
    si rinnovella
    e rifulge più pura.
    Ma il cor mi punge con tristezza amara
    che il dì ripensa della gioia
    e l'alba luminosa e la speranza
    folle e sicura, quando
    con lieto viso incontro al nuovo sole
    levai il primo canto, e la sua luce
    era certa promessa alla mia speme
    - e le dolci figure del mio sogno
    che appena avvicinate dileguaro
    tristi, perch'io ver lor fervidamente
    mi protendessi
    e in me le volessi, me stesso in loro
    tutto esaurire.
    Voler e non voler per più volere
    mi trattenne sull'orlo della vita
    ad angosciarmi in aspettar mia volta
    ed ai giucchi d'amore ed alle imprese
    giovanili mi fece disdegnoso.
    - A qual pro? Ma alla veglia dolorosa
    una fiamma splendeva e la nutriva
    una speme più forte.
    Ché se al lieto commercio e del piacere
    al giocondo convito l'imperioso
    battere mi togliea del mio volere
    impaziente, e mi togliea '1 fatale
    precipitar dell'ora, nel futuro
    pur m'indicava la mia ferma fede
    un giorno ed una gioia senza fine
    e l'affrettava.
    Ahi, quanto pur m'illuse la mortal
    mia vista che di fuor ci finge certo
    quanto ci manca sol perché ci manca -
    "vuoto il presente, vuoto nel futuro
    senza confini ogni presente, placa
    il voler tuo affannoso!
    non chieder più che non possa natura!".
    Ma il cor vive, e vuole, e chiede e aspetta
    pur senza speme, aspetta e giorno ed ora
    e giorno ed ora né sa che s'aspetta
    e inesorabilmente
    passano l'ore lente.
    Così è fuggita e fugge giovinezza
    ed i miei sogni e la speranza antica
    nel mio cupo aspettar ancor ritrovo
    insoddisfatti.

    Che mi giova o natura luminosa
    l'armonia del tuo gioco senza cure?
    Ahi, chi il tuo ritmo volle preoccupare
    rientrar non può nei tuoi eterni giri
    ad ozïare
    nel lavoro giocondo ed oblioso.
    È suo destino attender senza speme
    né mutamento,
    vegliando, il passar de l'ore lente.

    Dicembre 1909
    (antivigilia dell'anno nuovo)



    Marzo

    Marzo ventoso
    mese adolescente
    marzo luminoso
    marzo impenitente.

    Marzo che fai tuoi giochi
    con le nuvole in alto
    e con l'ombra e le luci
    dài mutevol risalto
    alla terra stupita

    alla terra intorpidita,
    mentre dal seno le strappi
    e le primole e le rose
    e fresch'acque rigogliose
    lieto fai rigorgogliare.

    Ed il passero riscuoti
    con la tua folle ventata
    nella sua grondaia secca
    nella siepe denudata.

    Spazzi i portici e le calli
    e la nebbia nelle valli
    e la polvere degli avi
    e i propositi dei savi
    rompi e l'ombra delle chiese.

    Ed il pavido borghese
    che nell'essa porta il gelo
    dell'inverno trapassato
    e col corpo imbarazzato
    geme il reuma ed il torpore,
    che nel volto porta il velo
    della noia ed il pallore
    della diuturna morte,
    si rinchiude frettoloso
    si rinvoltola accidioso
    e rincardina le porte.

    Se lo scuoti e lo palesi,
    marzo giovane pazzia,
    la sua trista nostalgia
    sogna il sonno di sei mesi.

    Ei ti teme, dolce frate
    marzo, terrore giocoso
    ma tu passi vittorioso
    sbatti gli usci e le impannate
    con le tue folli ventate.

    E la densa polve sveli
    nel tuo raggio popolato
    e sul legno affumicato
    i vetusti ragnateli.

    Poich'il termine al riposo
    canti, marzo adolescente,
    t'odia questa buona gente,
    marzo luminoso.

    Ma se t'odiano addormiti
    nelle coltri riscaldate
    ed i passeri impauriti
    nelle siepi denudate,
    t'ama il falco su nell'aria
    che più agile si libra
    nella tua ventata varia
    e la sente in ogni fibra
    lieto nella tua procella,
    ché per lei si fa più bella
    ché per lei si fa più pura
    ai suoi occhi la natura.

    Marzo mese luminoso
    marzo adolescente
    marzo mese irriverente
    marzo ventoso.

    1° marzo 1910



    Aprile

    Che più d'un giorno è la vita mortale?
    Nubil'e brev'e freddo e pien di noia,
    die pò bella parer ma nulla vale.
    PETRARCA, Triumphus Temporis

    Il brivido invernale e il dubbio cielo
    e i nembi oscuri che al novello amore
    han fatto schermo della terra antica
    dispersi a un tratto, al sol ride la terra
    che d'erbe e fiori ancor s'è ricoperta
    - se pur il ciel di nubi ancora svarii,
    onde occhieggian le stelle nelle notti,
    e nere fra il lor vario scintillare
    traggan le lunghe dita pel sereno
    che al piano oscuro ed ai profili neri
    degli alberi dei monti si congiungono.
    Ma nel cielo e nel piano, ma nell'aria,
    ma nello sguardo della tua compagna
    e nel pallido viso,
    ma nel tuo corpo, ma per la tua bocca
    canta ciò che non sai: la primavera.

    Così mi tragge a me stesso diverso
    e amor m'induce e desiderio, ancora
    ch'io non sappia per che, pur fiduciosi.
    Ché pur in me natura si nasconde
    insidiosa e ignaro me sospinge.
    Ahi, che mi vale, se pur fugge l'ora
    e mi toglie da me sì ch'io non possa
    saziar la mia fame ora qui tutta?
    Ma solo e miserabile mi struggo
    lontano e solo, anco s'a te vicino
    parlo ed ascolto, o mia sola compagna.
    Mentre di tra le dita delle nubi
    a che occhieggian le stelle nel sereno?
    Già trapassa la notte e nuove fiamme
    leverà il sole ch'ei rispenga tosto:
    passano i giorni e già sarà qui '1 verno
    e il sol sorgendo pallido e incurante
    farà fiorire il fango per le strade.
    A che occhieggian le stelle nel sereno?
    Qui bulica la terra e qui si muore,
    cantano i galli e stridon le civette.
    O gioia del novello nascimento,
    o nuovo amore e antico!
    O vita, chi ti vive e chi ti gode
    che per te nasce e vive ed ama e muore?
    Ma ogni cosa sospingi senza posa
    che la tua fame tiene, e che nel vario
    desiderar continua si trasmuta.
    Di sé ignara e del mondo desiosa
    si volge a questo e a quello che nemico
    le amica il vicendevole disio,
    nemica a quelli pur quando li ami
    e ancora a sé per più voler nemica.
    Così nel giorno grigio si continua
    ogni cosa che nasce moritura,
    che in vari aspetti pur la vita tiene -
    ed il tempo travolge - e mentre viva
    vivendo muor la diuturna morte.

    Ed ancor io così perennemente
    e vivo e mi tramuto e mi dissolvo
    e mentre assisto al mio dissolvimento
    ad ogni istante soffro la mia morte.
    E così attendo la mia primavera
    una ed intera ed una gioia e un sole.
    Voglio e non posso e spero senza fede.
    Ahi, non c'è sole a romper questa nebbia,
    ma senza fine e senza mutamento
    sta in ogni tempo intero ed infinito
    l'indifferente tramutar del tutto.

    Pur tu permani, o morte, e tu m'attendi
    o sano o tristo, ferma ed immutata,
    morte benevolo porto sicuro.
    Che ai vivi morti quando pur sia vano
    quanto la vita il pallido tuo aspetto
    e se morir non sia che continuar
    la nebbia maledetta
    e l'affanno agli schiavi della vita -
    - purché alla mia pupilla questa luce
    che pur guarda la tenebra si spenga
    e più non sappia questo ch'ora soffro
    vano tormento senza via né speme,
    tu mi sei cara mille volte, o morte,
    che il sonno verserai senza risveglio
    su quest'occhio che sa di non vedere,
    sì che l'oscurità per me sia spenta.

    Notte 16-17 aprile 1910



    Giugno

    Tutta la forza dal tuo seno, o terra,
    il sole ha tratto che salendo avvampa,
    e l'estate trionfa.
    Due volte l'erba ti recise avaro
    il prudente bifolco, e già le fronde
    onde tutta t'ammanti,
    per il continuo ardor si fan perdute.
    Ed alla notte gli astri all'orizzonte
    per i vapor rosseggiano più grandi
    quasi la vita per più forza gravi
    come un'aura di morte.
    Ma se i fiori onde prossima l'aurora
    del giorno estremo
    anelava l'adolescente Aprile
    vento estivo ha dispersi,
    sotto le fronde si matura il frutto
    e il bifolco gioisce.
    Ahi, la promessa della primavera
    in questo picciol frutto si rinserra
    ed il tempo procede per il giro
    d'altri inverni e di nuove primavere.

    Ma alla notte sui vertici ricolmi
    passa il nembo e pel cielo s'accavalla
    la nera massa delle nubi, e lungi
    livida luce rompe la tenèbra
    e pei piani rivela in nuovo aspetto
    messi ondeggianti ed alberi ricurvi
    e pei monti corruschi nuove forme
    ed in cielo più mondi e nuova vita
    ogni volta diversa, mentre lungi
    nuova voce rimbomba e intorno e in alto
    si spande e ancor dai monti riecheggia.
    E a destra e a manca e presso e da lontano
    riappar la nuova luce, e come il cielo
    nel diverso bagliore si trasmuta,
    così la terra la livida faccia
    in nuova congiunzion sembra mutare,
    mentre presso e lontano, oscuro o chiaro
    romba il nuovo fragore senza posa.

    Qual nuova speme, anima solitaria,
    qual si ridesta
    al diffuso baglior speme sopita?
    Dal diffuso baglior verrà la Luce
    mai veduta? e dal rombo vorticoso
    la Voce squillerà che non udisti?
    Ecco la terra ancora si congiunge
    coi nuovi mondi in alto,
    e la striscia di fuoco ecco dirompe
    la tenebra, ed io stesso abbacinato
    nel vortice di fuoco sono avvolto.
    Sospesa a quella luce è la mia vita
    un attimo od un tempo senza fine,
    che fra il lampo ed il tuono non si vive.
    - Ora scoppia la vita e s'apre il frutto
    del mio tanto aspettar, ora la gioia
    intera e il possesso dell'universo,
    ora la libertà ch'io non conosco,
    ora il Dio si rivela, ora è la fine.
    Ma scroscia il tuono che m'assorda... io vivo
    e famelico aspetto ancor la vita.
    Altri lampi, altri tuoni, ed il mistero
    in benefica pioggia si dissolve.



    Risveglio

    Giaccio fra l'erbe
    sulla schiena del monte, e beve il sole
    il mio corpo che il vento m'accarezza
    e sfiorano il mio capo i fiori e l'erbe
    ch'agita il vento
    e lo sciame ronzante degli insetti. -
    Delle rondini il volo affaccendato
    segna di curve rotte il cielo azzurro
    e trae nell'alto vasti cerchi il largo
    volo dei falchi...
    Vita?! Vita?! qui l'erbe, qui la terra,
    qui il vento, qui gl'insetti, qui gli uccelli,
    e pur fra questi sente vede gode
    sta sotto il vento a farsi vellicare
    sta sotto il sole a suggere il calore
    sta sotto il cielo sulla buona terra
    questo ch'io chiamo "io", ma ch'io non sono.
    No, non son questo corpo, queste membra
    prostrate qui fra l'erbe sulla terra,
    più ch'io non sia gli insetti o l'erbe o i fiori
    o i falchi su nell'aria o il vento o il sole.
    Io son solo, lontano, io son diverso -
    altro sole, altro vento e più superbo
    volo per altri cieli è la mia vita...
    Ma ora qui che aspetto, e la mia vita
    perché non vive, perché non avviene?
    Che è questa luce, che è questo calore,
    questo ronzar confuso, questa terra,
    questo cielo che incombe? M'è straniero
    l'aspetto d'ogni cosa, m'è nemica
    questa natura! basta! voglio uscire
    da questa trama d'incubi! la vita!
    la mia vita! il mio sole!

    Ma pel cielo
    montan le nubi su dall'orizzonte,
    già lambiscono il sole, già alla terra
    invidiano la luce ed il calore.
    Un brivido percorre la natura
    e rigido mi corre per le membra
    al soffiare del vento. Ma che faccio
    schiacciato sulla terra qui fra l'erbe?
    Ora mi levo, che ora ho un fine certo,
    ora ho freddo, ora ho fame, ora m'affretto,
    ora so la mia vita,
    che la stessa ignoranza m'è sapere -
    la natura inimica ora m'è cara
    che mi darà riparo e nutrimento,
    ora vado a ronzar come gl'insetti. -
    Sul S. Valentin, giugno 1910



    [Alla sorella Paula]

    Come le rondinelle anno per anno
    tornano al nido che le vide implumi,
    così l'uomo nel giro dei suoi giorni
    torna e ritorna al pensier della culla.
    Ed ogni anno quel dì rifesteggiando
    che alla fame, alla sete, che al dolore,
    che alla vita mortale l'ha svegliato,
    ogni anno in quel dì si riconforta
    ad amar la sua vita.
    E i parenti - che allor nel neonato,
    nella creatura fragile impotente,
    della speranza lor videro il frutto,
    e con pavido amore a lui porgendo
    quanto la vita dona a chi la chiede
    del suo pianto si fecer velo agli occhi,
    confidando che vesti e nutrimento
    gli potessero far viver la vita,
    - anno per anno poi rinnovellando
    la speranza lontana ed il dolore
    si fanno velo ancora agli occhi stanchi,
    grazie porgendo a lui dell'esser nato,
    perch'ei sia grato a lor della sua vita,
    perché il muto dolore sia obliato
    e la promessa vana ogni presente.
    Ma l'augurio che ciò ch'ei mai non ebbe
    pur un istante
    promette in lunghi anni luminosi
    dia la sua luce presa dal futuro
    al giorno natalizio, e l'illusione
    moltiplicando gli finga la fame
    esser un bene e vita sufficiente
    la diuturna morte.
    E baci e doni e la mensa imbandita,
    dolci parole in copia e dolci cose,
    liete promesse e guardi fiduciosi
    faccian chiara la stanza famigliare
    facciano schermo alla notte paurosa...

    Paula, non ti so dir dolci parole,
    cose non so che possan esser care,
    poiché il muto dolore a me ha parlato
    e m'ha narrato quello che ogni cuore
    soffre e non sa - che a sé non lo confessa.
    Ed oltre il vetro della chiara stanza
    che le consuete imagini riflette
    vedo l'oscurità pur minacciosa
    - e sostare non posso nel deserto.
    Lasciami andare, Paula, nella notte
    a crearmi la luce da me stesso,
    lasciami andar oltre il deserto, al mare
    perch'io ti porti il dono luminoso
    ... molto più che non credi mi sei cara.

    2 agosto 1910



    Onda per onda batte sullo scoglio
    - passan le vele bianche all'orizzonte;
    monta rimonta, or dolce or tempestosa
    l'agitata marea senza riposo.
    Ma onda e sole e vento e vele e scogli,
    questa è la terra, quello l'orizzonte
    del mar lontano, il mar senza confini.
    Non è il libero mare senza sponde,
    il mare dove l'onda non arriva,
    il mare che da sé genera il vento,
    manda la luce e in seno la riprende,
    il mar che di sua vita mille vite
    suscita e cresce in una sola vita.

    Ahi, non c'è mare cui presso o lontano
    varia sponda non gravi, e vario vento
    non tolga dalla solitaria pace,
    mare non è che non sia un dei mari.
    Anche il mare è un deserto senza vita,
    arido triste fermo affaticato.
    Ed il giro dei giorni e delle lune,
    il variar dei venti e delle coste,
    il vario giogo sì lo lega e preme
    - il mar che non è mare s'anche è mare.
    Ritrova il vento l'onda affaticata,
    e la mia chiglia solca il vecchio solco.
    E se fra il vento e il mare la mia mano
    regge il timone e dirizza la vela,
    non è più la mia mano che la mano
    di quel vento e quell'onda che non posa...
    Ché senza posa come batte l'onda
    ché senza posa come vola il nembo,
    sì la travaglia l'anima solitaria
    a varcar nuove onde, e senza fine
    nuovi confini sotto nuove stelle
    fingere all'occhio fisso all'orizzonte,
    dove per tramontar pur sorga il sole.
    Al mio sole, al mio mar per queste strade
    della terra o del mar mi volgo invano,
    vana è la pena e vana la speranza,
    tutta è la vita arida e deserta,
    finché in un punto si raccolga in porto,
    di sé stessa in un punto faccia fiamma.

    Pirano, agosto 1910



    Ognuno vede quanto l'altro falla
    quando crede passar filo per cruna,
    pur spera ognuno d'infilar sua cruna,
    né perché più s'avveda dell'inganno
    meno ritenta ancora la fortuna.
    Che tale è la sua sorte:
    col suo filo sperar vita tramare
    e con la speme giungere alla morte.



    Non è la patria
    il comodo giaciglio
    per la cura e la noia e la stanchezza;
    ma nel suo petto, ma pel suo periglio
    chi ne voglia parlar
    deve crearla. -



    È il piacere un dio pudico,
    fugge da chi l'invocò;
    ai piaceri egli è nemico,
    fugge da chi lo cercò.

    Egli ama quei che non lo invoca,
    egli ama quei che non lo sa;
    e dona la sua luce fioca
    a chi per altra luce va. -

    Chi lo cerca non lo trova,
    chi lo trova non lo sa;
    il suo nome mette a prova
    questa fiacca umanità. -

    È il piacere l'Iddio pudico
    ch'ama quello che non lo sa:
    se lo cerchi se' già mendico,
    t'ha già vinto l'oscurità. -



    Per ora a bordo non è lavorare
    che inerte pende la vela
    e il vento tace sul mare
    e il mar è a specchio del cielo
    Per ora - a bordo non è lavorare

    A sera il sole calerà nel mare
    che senza nubi è il cielo
    e giù ai confini del mare
    l'orizzonte è senza velo
    A sera - il sole calerà nel mare

    Oggi sul ponte dolce riposare
    che senza moto la nave
    riposa il riposo del mare
    e non si può camminare
    Oggi sul ponte dolce riposare

    Sola sul dorso del mare
    nel mezzo del cerchio lontano
    sta sotto il ciel meridiano
    la nave a galleggiare



    [I figli del mare]

    Dalla pace del mare lontano
    dalle verdi trasparenze dell'onde
    dalle lucenti grotte profonde
    dal silenzio senza richiami -
    Itti e Senia dal regno del mare
    sul suolo triste sotto il sole avaro
    Itti e Senia si risvegliaro
    dei mortali a vivere la morte.
    Fra le grigie lagune palustri
    al vario trasmutar senza riposo
    al faticare sordo ansioso
    per le umide vie ritorte
    alle mille voci d'affanno
    ai mille fantasmi di gioia
    alla sete alla fame allo spavento
    all'inconfessato tormento -
    alla cura che pensa il domani
    che all'ieri aggrappa le mani
    che ognor paventa il presente più forte
    al vano terrore della morte
    fra i mortali ricurvi alla terra
    Itti e Senia i principi del mare
    sul suolo triste sotto il sole avaro
    Itti e Senia si risvegliaro. -

    Ebbero padre ed ebbero madre
    e fratelli ed amici e parenti
    e conobbero i dolci sentimenti
    la pietà e gli affetti e il pudore
    e conobbero le parole
    che conviene venerare
    Itti e Senia i figli del mare
    e credettero d'amare.
    E lontani dal loro mare
    sotto il pallido sole avaro
    per il dovere facile ed amaro
    impararono a camminare.
    Impararono a camminare
    per le vie che la siepe rinserra
    e stretti alle bisogna della terra
    si curvarono a faticare.
    Sulle pallide facce il timore
    delle piccole cose umane
    e le tante speranze vane
    e l'ansia che stringe il core.

    Ma nel fondo dell'occhio nero
    pur viveva il lontano dolore
    e parlava la voce del mistero
    per l'ignoto lontano amore.
    E una sera alla sponda sonante
    quando il sole calava nel mare
    e gli uomini cercavano riposo
    al lor ozio laborioso
    Itti e Senia alla sponda del mare
    l'anima solitaria al suono dell'onde
    per le sue corde più profonde
    intendevano vibrare.
    E la vasta voce del mare
    al loro cuore soffocato
    lontane suscitava ignote voci,
    altra patria altra casa un altro altare
    un'altra pace nel lontano mare.
    Si sentirono soli ed estrani
    nelle tristi dimore dell'uomo
    si sentirono più lontani
    fra le cose più dolci e care.
    E bevendo lo sguardo oscuro
    l'uno all'altra dall'occhio nero
    videro la fiamma del mistero
    per doppia face battere più forte.
    Senia disse: "Vorrei morire"
    e mirava l'ultimo sole.
    Itti tacque, che dalla morte
    nuova vita vedeva salire.
    E scorrendo l'occhio lontano
    sulle sponde che serrano il mare
    sulle case tristi ammucchiate
    dalle trepide cure avare
    "Questo è morte, Senia" - egli disse -
    "questa triste nebbia oscura
    dove geme la torbida luce
    dell'angoscia, della paura.

    Altra voce dal profondo
    ho sentito risonare
    altra luce e più giocondo
    ho veduto un altro mare.
    Vedo il mar senza confini
    senza sponde faticate
    vedo l'onde illuminate
    che carena non varcò.
    Vedo il sole che non cala
    lento e stanco a sera in mare
    ma la luce sfolgorare
    vedo sopra il vasto mar.
    Senia, il porto non è la terra
    dove a ogni brivido del mare
    corre pavido a riparare
    la stanca vita il pescator.
    Senia, il porto è la furia del mare,
    è la furia del nembo più forte,
    quando libera ride la morte
    a chi libero la sfidò".

    Così disse nell'ora del vespro
    Itti a Senia con voce lontana;
    dalla torre batteva la campana
    del domestico focolare:
    "Ritornate alle case tranquille
    alla pace del tetto sicuro,
    che cercate un cammino più duro?
    che volete dal perfido mare?
    Passa la gioia, passa il dolore,
    accettate la vostra sorte,
    ogni cosa che vive muore
    e nessuna cosa vince la morte.
    Ritornate alla via consueta
    e godete di ciò che v'è dato:
    non v'è un fine, non v'è una meta
    per chi è preda del passato.
    Ritornate al noto giaciglio
    alle dolci e care cose
    ritornate alle mani amorose
    allo sguardo che trema per voi
    a coloro che il primo passo
    vi mossero e il primo accento,
    che vi diedero il nutrimento
    che vi crebbe le membra e il cor.
    Adattatevi, ritornate,
    siate utili a chi vi ama
    e spegnete l'infausta brama
    che vi trae dal retto sentier.
    Passa la gioia, passa il dolore,
    accettate la vostra sorte,
    ogni cosa che vive muore
    nessuna forza vince la morte".

    Soffocata nell'onda sonora
    con l'anima gonfia di pianto
    ascoltava l'eco del canto
    nell'oscurità del cor,
    e con l'occhio all'orizzonte
    dove il ciel si fondeva col mare
    si sentiva vacillare
    Senia, e disse: "Vorrei morire".
    Ma più forte sullo scoglio
    l'onda lontana s'infranse
    e nel fondo una nota pianse
    pei perduti figli del mare.
    "No, la morte non è abbandono"
    disse Itti con voce più forte
    "ma è il coraggio della morte
    onde la luce sorgerà.
    Il coraggio di sopportare
    tutto il peso del dolore,
    il coraggio di navigare
    verso il nostro libero mare,
    il coraggio di non sostare
    nella cura dell'avvenire,
    il coraggio di non languire
    per godere le cose care.
    Nel tuo occhio sotto la pena
    arde ancora la fiamma selvaggia,
    abbandona la triste spiaggia
    e nel mare sarai la sirena.
    Se t'affidi senza timore
    ben più forte saprò navigare,
    se non copri la faccia al dolore
    giungeremo al nostro mare.

    Senia, il porto è la furia del mare,
    è la furia del nembo più forte,
    quando libera ride la morte
    a chi libero la sfidò". -

    Carsia, 2 settembre 1910



    [A Senia]

    I

    Le cose ch'io vidi nel fondo del mare,
    i baratri oscuri, le luci lontane
    e grovigli d'alghe e creature strane,
    Senia, a te sola lo voglio narrare.

    Ché a brevi fiate nel tempo passato
    nel fondo del mare mi sono tuffato.
    A dare or la patria all'esule sirena,
    la patria a me stesso e all'uomo abbattuto
    svelare la via del suo regno perduto,
    mi voglio tuffare con più forte lena,
    che ogni uom manifeste le tenebre arcane
    conosca e vicine le cose lontane.

    Ma quel che già vidi nel fondo del mare,
    i baratri oscuri, le luci lontane
    e grovigli d'alghe e creature strane,
    Senia, a te sola lo voglio narrare.


    II

    Da te lontano, nelle notti insonni,
    innanzi agli occhi dove anche io miri,
    sempre ho lo slancio della tua persona
    come il vento la trae della passione
    e la faccia raccolta che la fiamma
    nel tempo stesso vela e manifesta.
    Ma se l'occhio distolgo dalla strada
    arida e sola che percorro oscura
    e alla diafana luce lo rivolgo
    dell'imagine tua cara e lontana,
    invano cerco a me farla vicina,
    invano cerco trattenerla, invano
    tendo le braccia: nella notte oscura
    non anche io l'ho mirata ed è svanita.
    E l'occhio stanco e ardente la tenèbra
    pur mira densa e inesorata quale
    si chiuse innanzi all'antico cantore
    che a Euridice si volse ed Euridice
    nella notte infernale risospinse.
    Spenta ogni luce allora ed ogni via
    sbarrata, allor più presso la tenèbra
    mi stringe sì che il cuor ignoto orrore
    m'invade, non per me se nella notte
    solo io soccomba, ma per te, o compagna
    forte e sicura - che pel mio piacer,
    per la mia debolezza, il mio sostare
    non t'abbia risospinta nella stretta
    della diuturna sofferenza inerte.

    Perciò se freddo e ruvido io ti sembri,
    ma tu lo sai: è per vieppiù andare,
    è per nutrir più vivida la fiamma,
    perché un giorno risplenda nella notte,
    perché possiamo un giorno fiammeggiar
    liberi e uniti al porto della pace.

    9 settembre 1910


    III

    Non sorridente sotto il sole estivo,
    la faccia luminosa e gli occhi chiari
    nel doppio raggio del sole e del mare -
    non melodiosa in tutta la persona
    nel ritmo della danza, o fiduciosa
    nell'infuriar dell'onde, come quando
    a me che ti chiedevo rispondevi:
    "Per me non è mai tempo di tornare,
    chi va sicuro non potrà affogare",
    né sbattuta dall'onda musicale
    quando senza velami dai tuoi occhi
    l'anima fiammeggiava e la tua vita
    nelle dita sicure era raccolta -
    non più così la creatura del sole,
    il fiore della vita, la sorgente
    ond'io le labbra asciutte dissetava,
    la giovinezza quale altrove invano
    per le vie della terra ho ricercata -
    non più così ti vidi nel mio sonno,
    quando la trama più si fa sottile
    e all'anima più pura inverso l'alba
    rivela il sogno le cose lontane.
    Ma ripiegata in piccolo sedile,
    come un uccello che ferito a morte
    l'ultima vita con l'ali ripara,
    d'un velo bianco ti facevi schermo
    al freddo e alla vicina fredda morte;
    e in faccia era svanito ogni colore,
    ogni scintilla spenta, e nelle occhiaie
    oscure gli occhi t'eran fatti cavi.
    Io ti parlavo e tu non rispondevi,
    ma pur col bianco vel t'adoperavi
    di riparare l'ultimo calore.
    T'ero vicino e tu non mi vedevi,
    ma nella morte già eri raccolta
    ed alla morte come ad un riposo
    stanca le membra e i veli disponevi,
    con moto lento, come di chi ascolta
    d'una squilla lontana il misterioso
    annunzio noto, ch'altri non intende.

    Così m'eri distolta e la mia vita
    invano sanguinava per ridare
    a te la vita che s'era partita:
    con le mani non ti potea scaldare,
    con la voce non ti potea svegliare.
    Come da lungi nel plumbeo mare
    che si fonde col cielo vela bianca
    non più in mare che in cielo navigare
    sembra, così pur l'anima tua stanca
    era già della morte ed era in vita,
    t'era fatta la vita sol dolore,
    poiché in te la passione era svanita,
    ma sulla faccia il pallido terrore
    t'era dipinto e t'era chiuso il core.

    Ahi, non questa sognammo amara morte
    nel suo pallido aspetto pauroso,
    questa che va a picchiar tutte le porte
    e ai morti dalla nascita il riposo
    finge nel tempo eterno e tenebroso,
    ma la giovane morte che sorride
    a chi per la sua cura non la teme,
    la morte che congiunge e non divide
    la compagna e il compagno e non li preme
    con l'oscuro dolore - ma che insieme
    li accoglie nel suo seno, come il porto
    di pace chi ha saputo navigare
    nel mar selvaggio, nel deserto mare,
    che a terra non s'è vòlto per conforto.

    Rimprovero m'è il sogno e non spavento,
    perch'io m'attardo mentre tu languisci;
    s'io vinco certo così non perisci.
    Questo sogno m'è sferza all'ardimento.

    10 settembre 1910


    IV

    Dato ho la vela al vento e in mezzo all'onde
    del mar selvaggio, nella notte oscura,
    solo, in fragile nave ho abbandonato
    il porto della sicurezza inerte.
    Al mare aperto drizzata ho la prora
    per navigare, ed alla sorte oscura
    la forza del mio braccio ho contrapposta.
    Non ho temuto il vento avverso e l'onda
    canuta, né la mensa famigliare
    e l'usato giaciglio
    ho rimpianto o il commercio delle care
    e dolci cose. Né deserto e triste
    m'è apparso il mar sonante nella notte,
    anzi la voce sua come un appello
    mi sonò in cor della mia stessa vita;
    mi parve dolce cosa naufragare
    nel seno ondoso che col ciel confina,
    né temuta ho la morte...

    Alla punta del golfo donde il mare
    s'apre libero e vasto senza fine
    tu m'attendi sicura e fiduciosa,
    le vesti al vento, ritta sullo scoglio.
    Costeggiar mi conviene la scogliera
    per uscire dal golfo, quindi uniti
    navigheremo, poiché a me t'affidi:
    sì breve tratto da te mi divide
    e dal libero mar sì breve tratto!
    - Ma perch'io tenti la bordata e tenda
    la vela al vento, pur l'inerte chiglia
    non fende l'onda, ch'ora sulle creste
    spumanti, or negli abissi, or sur un bordo
    or sull'altro la trae senza riposo.
    E se l'albero gema, se la scotta
    a spezzarsi si tenda, e nella vela
    ingolfandosi il vento il mio naviglio
    minacci di sommergere, pur sempre
    alla stessa distanza io mi ritrovo
    dalla punta agognata. Col timone
    io m'adopero invano al mare aperto
    dirizzare la prora: a chiglia inerte
    il timone non giova.

    Il vento e l'onde intanto lentamente
    come un rottame verso la scogliera
    mi spingono a rovina senza scampo.
    Ch'io debba naufragar senza lottare
    fra la miseria dei battuti scogli,
    presso al porto esecrato, come un vile,
    senza esser giunto al mare, e te lasciando
    sola e distrutta dopo il sogno infranto
    fra le stesse miserie?

    Gorizia, 15 settembre 1910


    V

    Se mi trovo fra gli uomini talvolta,
    qualunque cosa io parli, la mia voce
    mi par che solo il nome tuo richiami.
    Io taccio allora e aspetto trepidando
    ch'altri con bocca impura a questa voce
    risponda, e del mio bene ascoso mi discorra;
    e se pur d'altre cose memorando
    mi parlano con voce indifferente,
    ma nel loro sorriso, ma negli occhi
    mi par d'intravedere ch'altra cosa
    vogliono dire, che nel cor profondo
    sì mi ferisce. Che da ogni mio gesto,
    che dal volto mi par ch'altri mi legga
    il pensiero di te che sei lontana.

    Dal commercio degli uomini rifuggo
    allora alla campagna solitaria
    o alla mia stanza solitaria e solo
    tutto in me mi raccolgo; ma nell'aria,
    nel canto degli uccelli e nell'uguale
    mormorare dell'acqua, dalle ripe
    alte del fiume e pur dalle pareti
    della mia ignuda stanza, a piena voce
    il tuo nome riecheggia al mio silenzio,
    sì che palese a ognuno e manifesta
    del tutto, al volgo preda senza schermo,
    parmi l'anima mia nel suo segreto.
    Ed il sogno che nasce palpitante,
    la "storia" che non soffre le parole
    ma vuol esser vissuta, il più profondo
    e caro senso della nostra vita,
    che pur uniti e soli sotto il velo
    di parole comuni nascondiamo,
    d'atti comuni, con gelosa cura
    nascondiamo a noi stessi, ora del volgo
    mi par fatto preda contaminata.

    Nei giorni del dolore e nelle notti
    senza riposo, nella valle triste
    della sorda fatica e del tormento
    senza speranza, nel mio dubitare
    cieco, quando l'abisso dell'inerzia,
    dell'abbandono m'era aperto ai piedi,
    allor fioca scintilla io l'allevava
    il mio sogno lontano, ancor ch'io fossi
    d'ogni certa speranza privo al tutto;
    ma da quello una vena mi fluiva
    di forza che nel mezzo delle cose
    vane e volgari, delle ottuse cure,
    indifferente mi facea e sicuro,
    e al dolor mi temprava e ogni timore
    del mio stesso soffrir, ogni ricerca
    di premi, di riposo, di conforto
    ogni viltà dal cuore mi toglieva.
    Dal più profondo della mia distretta,
    nella mente più oscura quella fiamma
    mi era sorta, caduta ogni speranza,
    e la risposta al tanto faticare
    di richieste alla vita per lei chiara
    mi rifulgeva: "Non chieder più nulla,
    sappi goder del tuo stesso dolore,
    non adattarti per fuggir la morte;
    anzi da te la vita nel deserto
    fatti - che sia per gli altri nuova vita;
    non disperare, ma rinuncia ai vani
    aspetti della vita, e nel deserto
    sarai tranquillo: dalla tua rinuncia
    rifulgerà il tuo atto vittorioso,


    E sentii la mia vita fiammeggiare
    ed il deserto farsi popoloso,
    credetti fosse giunto il luminoso
    mio giorno nella notte e consumare
    quella fiamma mi parve la mia vita.
    Ma per più lunga strada il mio destino
    mi volse a far cammino: e vivo ancora
    mi trovai nel fittizio riposo,
    ma a te vicino per più forte andare;
    in te concreta vidi la mia fiamma,
    in te il mio sogno fatto era vicino
    e la mia vita più certa: ogni ritorno,
    ogni vile riposo, ogni timore
    era morto per me. - Nel mare ondoso,
    sulla brulla costiera solitaria,
    sotto la forte quercia, a me vicina
    io t'ho sentita siccome nel sogno. -
    Non Argia ma Senia io t'ho chiamata,
    per non sostar nel facile riposo,
    e la lingua la fiamma consacrata
    con le parole non contaminò.
    Pur or mi trovo ancora nella nebbia
    e il camminar m'è vano e la fatica
    novellamente mi si fa penosa.
    Io sento me da me fatto diverso,
    se pur vicina ti sento lontana
    ancora come un tempo, e la mia fiamma
    geme che pur rifulse nella notte
    per sua forza, sicura. Nelle tante
    piccole e vane cose nuovamente
    io mi dissolvo; nell'oscuro giro
    della diuturna noia il nostro sogno
    parmi tradito e per ignote voci
    con parole di scherno messo a nudo,
    pesato, misurato, confrontato…
    Come se ignote mani il focolare
    andassero scrutando ingordamente,
    e alle ceneri insieme le faville
    disperdessero al vento...

    L'angoscia di non giungere alla vita
    e di perire dell'oscura morte
    te trascinando nell'abisso, Senia,
    mi prende forte sì che dubitoso
    mi son fatto di me, che non sopporto
    le mie stesse parole, e di me stesso
    invincibile nausea m'opprime.

    Gorizia, 19 settembre 1910


    VI

    Ti son vicino e tu mi sei lontana,
    mi guardi e non mi vedi, o s'io ti parlo,
    pur amando ascolti, non però m'intendi;
    ti sono questo corpo e questi suoni,
    ti sono un nome, ti son un dei tanti,
    come un altro sarebbe
    che per nome e per vista conoscessi.
    Io non sono per te "io", la mia vita,
    io, questa mia volontà più forte,
    Il mio sogno, il mio mondo, il mio destino.
    Io non sono per te: questo mio amore
    disperato e lontano e doloroso
    - gli passi accanto e non lo senti amare.
    Ma ancor fra gli altri uomini t'aggiri,
    con questo parli ed a quello t'affidi,
    fra lor vivi e per lor, s'anco a nessuno
    dai la tua speme intera e la fiducia.
    Ma fra l'oggi e il domani e questo e quello
    ti dissolvi, e trapassi senza sole
    la tua selvaggia e forte giovinezza,
    e la tua speme consumando ignara
    sei di te stessa - ed io mi struggo invano.
    Mentre mi vince gelosia crudele
    non pur di questo giovane e di quello
    cui lo sguardo concedi o la parola,
    ma d'ogni cosa che ti sia vicina,
    ma del sole, dell'aria, ma del pane,
    ché di loro ti nutri e a me sei tolta;
    gelosia d'ogni giorno, d'ogni istante,
    che vivi, che non vivi di me solo,
    che l'aria e il pane e il sole, che ogni cosa,
    che il mondo intero, che la vita stessa
    vorrei esser per te - ma tu l'ignori.


    VII

    Parlarti? e pria che tolta per la vita
    mi sii, del tutto prenderti? - che giova?
    che giova, se del tutto io t'ho perduta
    quando mia tu non fosti il giorno stesso
    che c'incontrammo? Che se pur t'avessi
    ora, vincendo, mia per il futuro,
    mia per diritto, mia per tuo volere,
    mia non saresti più che non sei ora,
    mia non saresti più che s'altra mano
    ti possedesse. Che pur del mio corpo
    sarei geloso come or son d'altrui.
    Non più sarei per te la vita intera
    ch'ora non sono, se già in me non l'ami:
    ma se in me non l'ami, se tua vita
    crear non so della mia vita stessa,
    che più giova sperar, che più volere,
    che mi giova la vita e il mio dolore
    e questo amor lontano e disperato?
    Fatto sono da me stesso diverso
    che centra il fato mi dicevo forte,
    poiché ho esperta e ancor vivo ad ogni istante
    nella tua indifferenza la mia morte.
    Né più mi giova mendicare i giorni
    né chieder altro più dal dio nemico,
    se non che faccia mia morte finita.



    All'Isonzo

    Dalle nevose gole, dai torbidi
    monti lontani con lena rabida,
    con aspro sibilo soffia la raffica,
    rompe la densa greve nebbia,
    stringe le basse grigie nubi
    e le respinge in onde gravide.

    Passa radendo sui pioppi tremoli
    - sul nero piano incombe il peso
    della ciclopica lotta dell'etere.
    Ma a lei più forte risponde l'impeto
    selvaggio e giovine del fiume rapido
    cui le corrose ripe trattengono:
    il suo possente muggito al sibilo
    della procella commesce e il vivido
    chiaror del lontano sereno
    riflette livido, nell'onda torbida.

    E al mar l'annuncio porta della lotta
    che nebbia e vento nel ciel combattono,
    al mar l'annuncio porta del tumulto
    che in cor m'infuria quando la nausea,
    quando il torpore, il dubbio, l'abbandono
    per la tua vista, Argia, più fervido
    l'ardir combatte e sogna il mare libero.

    Notte del 22 settembre 1910



    fin

    .... è uno dei miei poeti preferiti




    [Modificato da gioiaedolore 20/01/2010 10:31]
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    svalvolata17
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    Registrato il: 26/12/2007
    Registrato il: 09/01/2008
    Città: SIRMIONE
    Età: 48
    Sesso: Femminile
    Occupazione: commerciante
    Utente Junior
    00 26/01/2010 18:38
    interessante- con calma le leggero' una x una [SM=g2115378]