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LA REPUBBLICA
9 febbraio 2007
Il "non possumus" dello Stato
di Gustavo Zagrebelsky

L’editoriale di Avvenire di martedì scorso [1] ha il tono di una "nota diplomatica", contenente un memorandum e un ultimatum, il tono cioè di atti di natura ufficiale, nei rapporti tra Stato e Stato e, come tale, deve essere valutato parola per parola, tanto più in quanto la diplomazia vaticana è di solito maestra di cautela e sottigliezze.

L'oggetto è la legge prossima ventura (?) sui diritti e i doveri delle coppie di fatto, una legge che, secondo il quotidiano dei vescovi italiani, realizzerebbe, «sia pure in forma insolita e indiretta, un modello alternativo e spurio di famiglia» che indebolirebbe e mortificherebbe l'istituto coniugale e familiare «nella sua unità irripetibile», un effetto «sgradevole» (!) che sarebbe dimostrato «in modo incontrovertibile» dall'esperienza di altri Paesi. Ciò andrebbe contro il favor per la famiglia fondata sul matrimonio, riconosciuto dalla Costituzione repubblicana, e contro una tradizione culturale e giuridica bimillenaria. Fin qui la critica, discutibile e discussa come tutte le opinioni, ma certo perfettamente legittima. A questo memorandum, segue l'ultimatum.

«Per questi motivi - si legge - se il testo che in queste ore circola come indiscrezione fosse sostanzialmente confermato, noi per lealtà dobbiamo fin d'ora dire il nostro non possumus. Che non è in alcun modo un gesto di arroganza, piuttosto è consapevolezza di ciò che dobbiamo - per servizio di amore — al nostro Paese» e «indicazione franca e disarmata di uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana».

Lasciamo da parte la retorica: ci mancherebbe altro che si rivendicasse il diritto a un gesto d'arroganza o a un atto di disprezzo verso "il nostro Paese". Vediamo invece le tre espressioni-chiave, quelle sopra indicate in corsivo.

Nella sua storia, la Chiesa ha pronunciato diversi non possumus, nei confronti delle pretese delle autorità politiche. Il che è del tutto naturale (anzi, forse ne ha pronunciati non pochi di meno di quanti ci si sarebbe potuto attendere in nome del Vangelo).

Si incomincia con Pietro e Paolo (Atti 4, 20) che, diffidati dal Sinedrio di non parlare né insegnare in nome di Gesù, risposero: «Non possumus non parlare di ciò che vedemmo e udimmo». Si dice poi che nel non possumus si siano trincerati Clemente VII, il papa che negò il divorzio di Enrico VIII da Caterina d'Aragona; Pio IX che si oppose al ritorno a casa di un bimbo ebreo, nel famoso e crudele "caso Mortara"; ancora Pio IX che rifiutò di partecipare alla coalizione anti-austriaca al tempo del Risorgimento e non accolse l'ipotesi di un'occupazione pacifica di Roma da parte dei piemontesi; il cardinale Antonelli, che escluse il riconoscimento papale di Roma capitale d'Italia. Tutto questo è chiaro e riguarda comportamenti, comunque li si voglia valutare storicamente, che rientrano nei loro compiti e nelle responsabilità degli uomini di Chiesa. Ma che cos'è che "non possono" i vescovi italiani, nella circostanza odierna? La risposta la danno loro stessi. Non si tratta solo del diritto al dissenso circa una legge dello Stato, diritto che nessuno contesta. Si tratta di una cosa molto diversa: non possono non prospettare uno spartiacque, che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana.

Bisogna meditare su questa affermazione. Non è una "indicazione che riguarda i rapporti tra la Chiesa e lo Stato italiano. Se così fosse, si tratterebbe di una questione, per così dire, di politica estera, tra due soggetti sovrani che pur si riconoscono come tali. Si sarebbe potuto discutere se ciò costituisse una corretta concezione degli ambiti rispettivi che l’art. 7 della Costituzione riconosce a ciascuno di loro («Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ambito…»). Poiché, in materia concordataria, manca per definizione, un terzo super partes, in caso di conflitto ognuno dei due soggetti finisce per essere arbitro dell'ampiezza della propria sfera d'azione. La discussione, su questo punto, sarebbe senza costrutto. Ma qui la "indicazione" dei vescovi è del tutto diversa: la Chiesa, attraverso un suo organo ufficiale — non un gruppo di cittadini o deputati cattolici, nella loro autonomia, ciò che farebbe una differenza essenziale - parla del futuro della politica italiana, parla cioè della vita interna dello Stato e delle «inevitabili conseguenze» su di essa. Così, viene, altrettanto inevitabilmente, messo in discussione l’altro caposaldo del art. 7, quel riconoscimento di reciproca «indipendenza e sovranità» dello Stato e della Chiesa, da cui discende l’esclusione di ogni ingerenza interna reciproca, esclusione che è conditio sine qua non del regime concordatario. Direi che mai, come in questo caso, nella storia recente, i basamenti del concordato hanno traballato. Non ci si è resi conto dell'implicazione? Se si vuole il concordato, occorre rispettare e difendere le condizioni materiali che lo rendono possibile.

Spesso, per comprendere i caratteri di una situazione, non c'è nulla di meglio che provare a rovesciarne i termini. Allora, che cosa si direbbe se fosse lo stato che, per assurdo, dicesse: se la Chiesa non assume un tale o un talaltro atteggiamento, ciò rappresenterà uno spartiacque e peserà sul futuro (non dei rapporti reciproci, ma addirittura) dei rapporti interni alla Chiesa, tra le sue diverse componenti, facendo eventualmente intravedere interventi per favorire o contrastare questa o quella posizione che fedeli o sacerdoti potessero prendere, a seconda del gradimento riscosso.

Si dirà: ma qui l'Avvenire si limita a una semplice, innocente "indicazione" preventiva. Già, ma viene data per lealtà. Che significa questa apparentemente innocua aggiunta? Non altro, mi pare, che un avvertimento: non ci si venga poi a lamentare che non ve l’avevamo detto; state in guardia per quel potrà accadere. La lealtà dell'annuncio significa preannuncio di conseguenze perturbatici del quadro parlamentare, in definitiva della libera dialettica democratica. Ci sono questioni sulle quali anche da parte dello stato democratico dovrebbero essere detti dei non possumus. Ci sono principi irrinunciabiii di laicita e democraticità delle istituzioni che sono non negoziabili. Ci sono casi su cui sarebbe bene che i soggetti che le rappresentano facessero sentire una voce rassicurante per tutti, pacata e ferma. Questo è uno di quelli. Con ogni garbo,naturalmente, e con tutta la diplomazia necessaria, ma questo è uno di quelli.

Ieri abbiamo appreso di una reazione di eletti dal popolo, ascrivibili alla schiera dei cattolici democratici, di cattolici adulti che, senza disconoscere la loro appartenenza alla Chiesa e il loro attaccamento ai principi spirituali cristiani, ristabiliscono le distinzioni, rivendicano la loro autonomia nell'esercizio delle loro funzioni costituzionali e respingono richiami all'ordine fin nel dettaglio di scelte legislative, in definitiva lesivi delle responsabilità dei cristiani nelle cose temporali. Finalmente. Anche per loro, la partita in corso è decisiva ed è precisamente quella che riguarda la difesa della loro dignità di soggetti, non di oggetti, come si dice, in re: quella dignità che il Concilio Vaticano II ha riconosciuto loro.

Si è detto che, nella vicenda in corso, la Chiesa italiana, attraverso la Conferenza episcopale, gioca il tutto per tutto, in una partita dall'esito incerto. Noi non sappiamo se la presa di posizione dell'Avvenire sarà eventualmente seguita da atti conseguenti. Può essere sì o no. Gli esperti di cose vaticane sono concordi nel riconoscere agli uomini della Cei capacità tattiche, se non strategiche. Può darsi che la prudenza induca a ripensamenti, a lasciare che le cose si stemperino nel tempo. Ma che triste delusione, per chi crede in Gesù il Cristo o, semplicemente, ritiene che il messaggio cristiano sia comunque un fermento spirituale prezioso da preservare, il vedere la Chiesa di Cristo ridotta al tavolo d'una partita, tentata di usare la discordia politica tra i cittadini e i suoi rappresentanti, come se fosse arma lecita delle sue battaglie.






[1]
AVVENIRE
6/2/2007
CIRCA LA BOZZA SULLE UNIONI DI FATTO
Il perché del nostro leale "non possumus"


Il lavorìo su un possibile disegno di legge del governo in materia di unioni di fatto sembra dunque arrivato ad una svolta. Le anticipazioni di stampa - soprattutto quella assai particolareggiata fornita sabato scorso da "Repubblica" - tenderebbero a confermare che ormai ci siamo. In realtà, però, a quanto è dato di capire, non ci siamo affatto. L'impianto della bozza normativa fatta circolare induce infatti a ritenere che ciò che era stato solennemente escluso, la creazione di un modello simil-familiare, è in realtà quello che si va alacremente predisponendo.
Era possibile domandarsi quali soluzioni potessero essere adottate per dare attuazione a quel capitolo del programma dell'Unione (qui senza l'Udeur) che prevede il «riconoscimento giuridico di diritti, prerogative e facoltà delle persone che fanno parte delle unioni di fatto». Formula questa che - secondo logica - individua come oggetto del riconoscimento che si vuole introdurre i diritti dei singoli e non la convivenza in quanto tale. Ne deriva che qualsiasi modello di registrazione, certificazione o attestazione della convivenza, ad esempio di tipo anagrafico, alla quale venisse collegata l'attribuzione di diritti e di doveri dei soggetti che ne fanno parte, sarebbe del tutto gratuita, e finirebbe per riconoscere legalmente una realtà di tipo para-familiare, determinandola anzi come un nuovo status.
Ebbene, tutto ciò che qui si paventa, lo troviamo nella bozza messa abilmente in circolazione per saggiare l'opinione pubblica. È infatti l'articolo 1 a dare subito il là in senso para-matrimoniale al testo. In primo luogo, introduce il "rito" della dichiarazione di convivenza e della conseguente "annotazione" nell'anagrafe comunale e fa discendere da questo passaggio l'attribuzione di diritti e di doveri ai conviventi. Si delinea, insomma, un processo nel quale l'anagrafe diventa lo strumento non di un puro e semplice accertamento, ma dell'attribuzione di uno status giuridicamente rilevante. Inoltre lo stesso articolo va a specificare - cosa assolutamente non dovuta - a quale titolo la convivenza si instaura, ossia delimitando le convivenze oggetto della normativa a quelle tra «due persone maggiorenni» legate da «vincoli affettivi». Le unioni di fatto con finalità assistenziali o solidaristiche non sono neanche considerate. E, stando ad altre anticipazioni di stampa, sarebbero addirittura escluse esplicitamente quelle tra fratelli e sorelle o tra parenti in linea retta.
Se a qualcuno queste sembrano questioni di lana caprina, si ricreda. Un conto è riconoscere alcuni diritti a persone che hanno dato liberamente origine a una situazione di fatto che rimane tale, e tutt'altro è dare a tale condizione una rilevanza giuridica che ne fa, appunto, la fonte di diritti e doveri assai simili a quelli previsti per la famiglia fondata sul matrimonio.
Sulla base di una costruzione giuridica, si riconoscerebbe così tutta una serie di diritti - in materia di successione, di pensione di reversibilità, di obbligo di prestazione di alimenti, di dovere di reciproca assistenza e solidarietà - che non a caso l'ordinamento italiano prevede solo e soltanto in relazione allo status familiare e al valore di assoluta preminenza a questo riconosciuto dalla Costituzione e dalle leggi. E il risultato sarebbe quello di porre in modo forzoso e inevitabilmente sconvolgente su un piano analogo la programmatica stabilità della famiglia definita nell'articolo 29 della nostra Carta fondamentale e la condizione liberamente altra delle scelte di mera convivenza. Un'operazione spericolata da un punto di vista giuridico e ancora di più per significato e impatto sociale.
È questo il cuore del problema. Creare, sia pure in forma involuta e indiretta, un modello alternativo e spurio di famiglia significa indebolire e mortificare l'istituto coniugale e familiare «nella sua unicità irripetibile» (Benedetto XVI, domenica scorsa): l'esperienza, realizzata in una serie di Paesi, questo sgradevole nesso dimostra in modo incontrovertibile. E significa agire in oggettivo e azzardato contrasto con il favor riconosciuto alla famiglia fondata sul matrimonio dalla Costituzione repubblicana e da una tradizione culturale e giuridica bimillenaria.
Per questi motivi, se il testo che in queste ore circola come indiscrezione fosse sostanzialmente confermato, noi per lealtà dobbiamo fin d'ora dire il nostro "non possumus". Che non è in alcun modo un gesto di arroganza, piuttosto è la consapevolezza di ciò che dobbiamo - per servizio di amore - al nostro Paese. L'indicazione franca e disarmata di uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana.




INES TABUSSO