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CORRIERE DELLA SERA
18 settembre 2006
IL CASO ROVATI
Quant'è difficile dimettersi in Italia
di Gian Antonio Stella

Il più spiritoso fu Francesco Cossiga che un giorno, a Piero Chiambretti che
gli chiedeva come mai dava continuamente le dimissioni, precisò: «Io non mi
dimetto: minaccio. Mi deve chiamare Presidente Incombente. Anzi mi chiami
semplicemente Incombente». Ma lui almeno, da ministro degli Interni e da capo
dello Stato, due lettere di commiato le ha firmate davvero. Gli altri, addio.
Come ci ricorda in queste ore il caso di Angelo Rovati, non c'è forse Paese,
nell'orbe terracqueo, dove sia più difficile dare le dimissioni.
È vero: non siamo gli unici. Perfino nel mondo anglosassone, dove la scelta di
andarsene per togliere di imbarazzo lo Stato, il governo o il partito è assai
apprezzata (si ricordino per tutte le dimissioni di Bernard Kerik, che sarebbe
stato il responsabile della sicurezza interna degli Stati Uniti se non l'avesse
travolto la notizia che aveva una bambinaia non in regola o quelle del
sottosegretario inglese David Mellor, la cui amante spagnola raccontò che gli
piaceva fare sesso con la maglietta del Chelsea), non tutti accettano di
abbandonare il campo.
Basti pensare a Bill Clinton che, nei giorni più duri del «sexy-gate» con
Monica Lewinsky, andò in tivù per ribaltare tutto: «Non mi dimetterò mai. Non
abbandonerò mai il popolo di questo Paese. Non deluderò mai la fiducia che
hanno riposto in me». Ma quella che lì è quasi una eccezione (Winston Churchill
battuto alle elezioni ci scherzò su: «Mi sono dato le dimissioni ma le ho
rifiutate»), da noi è quasi una regola. Al punto che Dino Zoff, una volta, si
permise un filo di ironia: «Gli unici che si dimettono, da noi, sono gli
allenatori». Calcio compreso, s'intende.
Non voleva andarsene, dopo l'ultimo scandalo, Franco Carraro: «Non mi fa
piacere il voto negativo della maggioranza della Lega ma non mi dimetto». Non
voleva andarsene Adriano Galliani: «Sono stato, credo, un ottimo presidente
della Lega Calcio e non mi dimetto, perché in Italia le dimissioni sono
un'ammissione di colpa e io colpe non ne ho». Non volevano andarsene, sulle
prime, manco Luciano Moggi e Antonio Giraudo: «Dimissioni? Questa è una vicenda
che compatta la dirigenza e l'ambiente!». Ma è proprio in politica o nelle
immediate vicinanze (come dimenticare il tormentone intorno al governatore
della Banca d'Italia Antonio Fazio, beccato mentre dava appuntamenti «dal
retro» a quel Gianpiero Fiorani che gli mandava «un bacio sulla fronte»?) che
abbiamo assistito negli anni alle battaglie di trincea più accanite. Non ce n'è
stato uno, davanti al divampare delle polemiche, che abbia ceduto senza
tentare, borrellianamente parlando, di resistere, resistere, resistere.
Non mollò Toni Negri che, rifugiatosi a Parigi, respinse sempre gli appelli di
Marco Pannella e degli altri leader radicali, rifiutando di dimettersi per
consentire ad altri di subentrargli. Non mollò per giorni e giorni il
sottosegretario leghista Stefano Stefani che, mentre divampava in Germania la
polemica accesa da un suo articolo su La Padania in cui aveva irriso ai
tedeschi che «invadono rumorosamente le nostre spiagge» dopo essere cresciuti
«a roboanti gare di rutti dopo pantagrueliche bevute di birra e scorpacciate di
Kartoffel fritte», cedette infine alle pressioni di mezzo governo («Uno stupido
è uno stupido, niente più che uno stupido», disse Fini) solo perché la faccenda
era diventata un caso internazionale. E non mollò per anni il sindaco di
Messina Giuseppe Buzzanca che, condannato per l'ormai celeberrimo viaggio in
autoblù a Bari dove doveva imbarcarsi con la moglie per una crociera, fu così
cocciuto da spingere la città, una delle più destrorse d'Italia, a sinistra.
I casi più clamorosi, però, a parte quello di Giulio Tremonti che, costretto a
lasciare l'Economia nel luglio 2003, pretese da Berlusconi una lettera
ufficiale («Ti chiedo di rassegnare le dimissioni»), sono tre. Il primo è
quello di Carlo Taormina. Il quale, messo davanti all'incompatibilità tra
l'essere insieme un sottosegretario agli Interni e il difensore di certi boss
mafiosi, difese ringhiosamente per sei mesi il suo doppio ruolo. Per barricarsi
con altrettanta cocciutaggine, due anni dopo, sulla poltrona di membro della
commissione Antimafia: «Non mi dimetterò mai, per nessun motivo, nemmeno se mi
scannano». Il secondo è quello di Claudio Scajola che, reo di aver fatto una
battuta indecente su Marco Biagi («Figura centrale Biagi? Fatevi dire da Maroni
se era una figura centrale: era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del
contratto di consulenza»), venne difeso per quattro interminabili giorni da
tutta la destra (escluso Giuliano Ferrara) che arrivò coi forzisti Gregorio
Fontana e Andrea Orsini a denunciare il «vecchio sistema di disinformazione,
caratteristico della tradizione comunista, di stravolgere il senso di una
frase». Immortale, però, resta il Piave personale del mitico Filippo Mancuso.
Ricordate? Faceva il ministro della Giustizia, una decina di anni fa, nel
governo «tecnico» di Lamberto Dini, mandò gli ispettori a Milano a indagare sul
Pool di Mani Pulite e riuscì a mettersi contro tutti, dai magistrati alla
maggioranza, dal presidente del Consiglio al capo dello Stato, Oscar Luigi
Scalfaro. Che lui, dopo esserne stato buon amico («Inesatto: godetti della sua
stima, mai la ricambiai») odiava come il Conte di Montecristo odiava Fernando,
Danglars e Villefort. Visti fallire tutti i tentativi di spingerlo a dimettersi
con le buone, gli presentarono contro una mozione di sfiducia. L'unica del
genere mai accolta nella storia patria. Lui contestò anche quella, facendo
ricorso alla Corte Costituzionale per «conflitto di attribuzioni fra poteri
dello Stato». Secondo lui il Senato non poteva sfiduciare un solo ministro.
Cedette infine. Tra sospiri di sollievo generali. Ma certo, in cuor suo, di
aver tenuto l'elmetto in testa e la baionetta innestata per una buona causa.
Dimissioni lui? Mai.



INES TABUSSO