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LA REPUBBLICA
5 aprile 2006
In principio era il signor mi consenta
FILIPPO CECCARELLI

MI CONSENTA diceva un tempo il presidente Berlusconi: e si poteva cogliere un che di lezioso, in quella poi celebre formula, ma anche il principio della buona educazione. Ecco: dal «mi consenta» del 1994 ai «coglioni» di ieri si consuma l´avventura, pure lessicale, del berlusconismo. Il Cavaliere, semplicemente, non poteva trattenersi dal dirlo. Gli succede sempre più spesso. Sui bambini bolliti dai cinesi, ha poi ammesso: «Non potevo fermarmi».
L´invettiva di Vicenza e l´insulto al ragazzo di Genova prologo dell´escalation contro Prodi e la sinistra
Dal galateo alla parolaccia la deriva del Cavalier mi consenta.
Il linguaggio originario di Berlusconi aveva un tono perbenista. Ora domina la volgarità.Il "coglioni" ha un precedente, nel ‘94. Ma era detto a tu per tu, non in pubblico.
A Vicenza, dopo lo sfogo contro gli industriali e Della Valle, si è indicato il gozzo e ha detto: «Ce l´avevo qui». Nel secondo duello, toccato da una battuta di Prodi, se n´è uscito: «Faccio fatica a trattenermi». Due settimane fa, a Genova, un ragazzo l´ha contestato per strada, urlandogli contro qualcosa su Mangano, lo stalliere. A quel punto il presidente del Consiglio s´è fermato: «Tu non ti puoi permettere». E guardandolo negli occhi, a muso duro: «Tu sei un coglione!».
Ora, ai politici - a tutti i politici - dà sempre un grande sollievo poter dire, dopo qualche insulto: «Quando ci vuole, ci vuole», con le dovute varianti dialettali. È comunque un´espressione, questa, che li fa sentire caldi, spontanei e perfino umani, perché a tutti in fondo scappa la parolaccia, e loro sono «come tutti». Ma in Berlusconi il passaggio dall´affettazione alla volgarità, da un linguaggio sostanzialmente perbenista e mirato a conquistare la simpatia e l´affetto del pubblico, ecco, questo cambiamento non solo è evidente, ma indica qualcosa di indicibile, l´indizio, il segno o la rivelazione che il Cavaliere sta perdendo ciò che è più importante in politica: la grammatica del rispetto.
Poi, come spesso accade - e a lui sempre più spesso - il tentativo di aggiustamento della gaffe l´ha in verità aggravata e rivendicata. Prima quando ha detto sul palco: «Scusate il linguaggio rozzo, ma efficace». Quindi all´uscita: «Era un´ironia» - povero Socrate. O addirittura: «Era un modo affettuoso». E infatti: «L´ho detto con il sorriso sulle labbra». Magari per smentire l´ultima copertina di Newsweek dove campeggia un Berlusconi immusonito, molto Caimano, e la scritta, appunto, che pone l´interrogativo: «Why Silvio isn´t smiling».
Ecco. A pensarci bene, a rivedere alla moviola «la scena dei coglioni», è proprio il modo inconsapevolmente livido con cui il premier ha pronunciato quel termine che mette a nudo la rottura dei suoi stessi codici linguistici. È la mancanza di sorriso che chiama l´insulto basso e villano, il disprezzo triviale che Berlusconi sembra aver mutuato dai suoi peggiori nemici, quegli stessi di cui si dichiara vittima da oltre dieci anni.
Non è più il linguaggio potenzialmente eversivo, ma accattivante che hanno studiato fior di studiosi e glottologi di varie scuole in tanti articoli e libri: Augusta Forconi, Parola di Cavaliere (Editori riuniti, 1997); Giorgio Fedel, Parola mia. Sulla retorica di Berlusconi, rivista Il Mulino, 2003; Sergio Bolasco, Luca Giuliano, Nora Galli de´ Paratesi, Parole in libertà, Manifestolibri, 2006.
Non è più la barzelletta pesante, o il complimento grossolano su gambe di congressiste, tette e ombelichi di croniste. È una metamorfosi al tempo stesso evoluta e regressiva che spinge questo ricco e potente uomo di governo a dire, ma anche a fare cose sempre più strane. Piccoli grandi incendi personali appiccati nel pagliaio dell´immaginazione collettiva. Spostamenti mentali, paesaggi onirici. Il voto di castità elettorale offerto a un sacerdote sardo, e poi sconfessato. La telefonata propagandistica notturna alle operatrici delle hot-line (sei su otto si sono dichiarate ammiratrici di Berlusconi, le altre due non interessate alla politica). L´agghiacciante scenetta improvvisata durante la visita di una scolaresca a Palazzo Chigi, così descritta l´altro giorno da un piccolo testimone: «Secondo lui tutte le ragazze sopra i 23 anni nel mondo dello spettacolo si rifanno, e mentre lo diceva ha messo le mani sul petto facendo finta di sollevarsi i seni». Un presidente del Consiglio. Un uomo di quasi settant´anni.
Così ieri sera l´agenzia Ansa metteva in rete un ameno e dotto dispaccio dal titolo: «Gli "attributi" della politica, da Cicerone a Berlusconi». Sottotitolo: «Un filo rosso tra l´antico "coleus" e il "coglione" di oggi». E allora nelle redazioni politiche si rideva, si scherzava, si ricostruiva il passato compulsando archivi e banche dati, certo con scrupolo degno di miglior causa.
Per cui sì, certo, ci mancherebbe: non è la prima volta che il Cavaliere pronuncia quella parola lì. Già nel 1994 telefonò a Maroni per dirgli: «Allora, è ufficiale: quello lì - e qua c´era il nome di un esponente referendario allora assai in voga - è un coglione». Così come l´anno seguente, intercettato una notte in un piano bar di Cernobbio, sempre il Cavaliere qualificò di coglione un futuro vicepresidente del Consiglio del Pds, o Ds, o come si chiamava allora quel partito. Poi fece marcia indietro: «Si dice per dire. Se quello fosse davvero un coglione non sarebbe dov´è». E così via, secondo la più celebrata competenza comunicativa.
Ma allora Berlusconi era un uomo e un politico molto, ma molto più spensierato di oggi. Non era Sgarbi, né Borghezio. E se proprio doveva dare del coglione a qualcuno, e non a decine di milioni di italiani, lasciava germogliare l´offesa in campo per così dire informale, o privato. Oggi invece quella parola, «coglioni», quella squisitezza di massa, fermenta nel mezzo del discorso pubblico, segno di cruda vitalità e disperata degradazione.


INES TABUSSO