verso l'archiviazione...
Roma - È scomparsa persino la parola federalismo. In più mancano ancora i numeri, i principi sono contraddittori, è difficile capire quali funzioni saranno trasferite, quanti soldi passeranno dallo Stato alle autonomie, su quali leve fiscali potranno contare le Regioni. E così il disegno di legge sul federalismo fiscale non solo non ha avuto neppure un primo via libera in Consiglio dei ministri, ma ha persino cambiato nome: «riforma in senso federale della finanza di Regioni ed enti locali» (la richiesta è arrivata da Parisi). Nonostante l’appello del capo dello Stato e il pressing del ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, alla fine la pratica è stata rinviata a giovedì prossimo. «O l’approviamo subito o in questa legislatura non facciamo più in tempo», ha ripetuto più volte Padoa-Schioppa durante le riunioni tecniche. E tutti sanno che un Dpef che non tenga conto del federalismo fiscale, significa un rinvio a data da destinarsi. La delusione è grande e le critiche al governo arrivano da ogni direzione: Regioni, Comuni e Province. Boccia apertamente il provvedimento l’Anci, sono molto perplesse le Province. Anche perché l’intenzione è di non licenziare un documento definito ma di dare un via libera di massima a «un testo aperto» da mandare in Parlamento.
Va all’attacco il presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, che si è speso per trovare un accordo tra tutte le Regioni italiane: «Quello del governo è un inganno: finge di voler approvare un documento sul federalismo fiscale ma lascia aperti i nodi cruciali sapendo che in Parlamento si insabbierà tutto. Il governo deve scegliere. Già sarebbe difficile far passare un testo coerente, figurarsi se è pieno di contraddizioni». La Lombardia ha comunque deciso di non abbandonare il tavolo, ma lo scetticismo è evidente. «Sono pessimista - dice Formigoni -, però resteremo a trattare. È una materia troppo importante per non provare fino alla fine a convincere e far capire anche al governo che si tratta di una rivoluzione silenziosa ma positiva per tutto il Paese. Ho paura che il governo non l’abbia capito o che faccia finta di non capirlo perché non ha voglia di superare le contraddizioni interne tra massimalisti e riformisti». Sulla decisione di rinviare l’approvazione, Formigoni è tranchant: «Temo non ci sia una vera volontà di portare avanti la riforma, se è vero che dopo otto mesi non hanno ancora parlato tra di loro e non conoscono i documenti».
INTERVISTA A FORMIGONI
Roberto Formigoni è deluso dall’esito del Consiglio dei ministri che avrebbe dovuto decidere il federalismo fiscale e che invece ha rinviato la pratica. Ma oggi sarà comunque a Roma per trattare con Prodi del documento di programmazione economica e finanziaria: «Mi attendo che nel Dpef si dica che la prossima finanziaria sia la prima costruita su base federalista, ma ormai sono molto pessimista. Come sono pessimista, in complesso, sul federalismo fiscale. Abbiamo lavorato molto, ma i risultati non sono arrivati. Il documento che ha presentato il governo è molto deludente».
Aveva minacciato di lasciare il tavolo. Perché ha deciso di restare se è tanto insoddisfatto?
«È una materia troppo importante per non provare fino alla fine a convincere i riottosi e far capire anche al governo che è l’avvio di una rivoluzione silenziosa ma positiva per tutto il Paese. Ho paura che il governo non l’abbia capito, o che faccia finta di non capirlo perché non vuole superare le contraddizioni interne tra massimalisti e riformisti».
Quali sono le critiche che muovete al federalismo fiscale del governo?
«Vogliamo che il superamento della spesa storica valga per tutti. È un merito delle Regioni, perché tutte le Regioni d’Italia, guidate dalla Lombardia, sono arrivate a questo risultato. Anche le Regioni del Sud chiedono che i finanziamenti siano erogati non sulla base della spesa storica (cioè chi ha avuto ha avuto e continua ad avere) ma andando a finanziare il servizio reso dalla Regione al prezzo medio. È un passo avanti formidabile che non ho visto nel testo. Permangono dei premi nonostante le Regioni abbiano chiesto di rinunciare».
Come se lo spiega?
«Non ci sono solo le Regioni. Ci sono resistenze e vischiosità di altri livelli di governo».
È in corso una guerra tra Comuni e Regioni?
«Non è una guerra. Il federalismo si fonda su una potestà legislativa, che in Italia è dello Stato e delle Regioni. Poi ci sono i poteri amministrativi dei Comuni che vanno rispettati. Il federalismo fiscale deve avvenire nel rispetto dei poteri amministrativi ma tenendo presente questa differenza fondamentale. Portiamo federalismo per semplificare, se moltiplichiamo gli enti facciamo solo confusione e incrementiamo i costi».
Vede il pericolo di inasprire il conflitto tra Nord e Sud?
«È il governo che disattende le richieste di tutti. Sono argomenti di interesse generale su cui la Lombardia è riuscita a trovare un accordo Nord-Sud, portando avanti il binomio solidarietà e responsabilità. Le Regioni del Nord hanno accettato che su sanità e assistenza i diritti sono uguali per tutti, garantiti a tutti e così sono finanziati dallo Stato. Nello stesso tempo il Sud ha accettato che tutte le altre materie, ricerca, tecnologia, turismo, siano finanziate sulla base della capacità fiscale».
Il testo sarà nuovamente esaminato giovedì in Consiglio dei ministri. Si aspetta miglioramenti?
«Quello del governo è un inganno: finge di voler approvare un documento sul federalismo fiscale ma lascia aperti i nodi cruciali sapendo che in Parlamento si insabbierà tutto».
C’è chi teme che alla fine il federalismo fiscale faccia crescere i costi per i contribuenti.
«È un rischio, dal momento che non hanno recepito la proposta della Lombardia di soppressione automatica degli enti della burocrazia statale quando le competenze vengono trasferite. Ad esempio, se i fondi per la famiglia diventano di competenza delle Regioni, noi chiediamo che scompaiano gli uffici, in certi casi i ministeri, che amministravano quei fondi. Sennò diventano enti inutili e i soldi sono buttati via. Altrimenti, sono spese doppie per il cittadini».