Pasolini e le autonomie

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DarkWalker
00mercoledì 1 agosto 2007 14:01


Siamo italiani, lombardi, varesotti, insubri. Oppure padani. Il dibattuto sulla nostra identità ha animato per settimane le colonne di varesenews. Si discute e si litiga, ed è lo specchio di come nella terra che ha dato vita nella Lega Nord, e al progetto politico di Padania, vi sia un uso smodato di certe categorie identitarie. Ma la lingua, il dialetto, le tradizioni, sono davvero solo idee leghiste? O sono patrimonio di tutti e da molti, a torto, dimenticate?

Il giudice Giuseppe Battarinio riflette da tempo sui concetti di confine e identità, ha già scritto articoli in proposito ed è stato al centro di una proposta per una corte d 'appello dell'Insubria. Ora sta per dare alle stampe una raccolta di saggi dal titolo "Il confine lieve", con la Nodolibri di Como. Eccone un estratto

Pasolini autonomista, il problema regionale, la prospettiva europea

“Con gli anni della liberazione, Pasolini crede di poter coniugare contemporaneamente la sua attività di nuovo iscritto al PCI, la sua funzione di poeta e di organizzatore di spirito poetico in lingua friulana con la fondazione dell'Academiuta di lenga furlana, e l’adesione ai primi movimenti autonomistici” .

E’ in questo contesto che si inserisce, all’inizio del 1947, l’adesione al MPF (Movimento Popolare Friulano) durata sino al febbraio del 1948, quando Pier Paolo Pasolini lascia il movimento autonomista per proseguire esclusivamente nella militanza comunista: senza tuttavia evitare di chiedersi e di chiedere, privo di risposta, perché il movimento operaio si riveli così pregiudizialmente ostile alla questione delle terre e delle autonomie: “volevo dare alla nostra questione un carattere anti-provinciale, anti-nazionalistico e tutto logico e funzionale, osservandolo dall’angolo visuale della Sinistra; e proprio non capivo come mai comunisti e socialisti fossero così sordi al problema”

[…]

[Egli] porta nella riflessione politica teorica – ma non riuscirà a tradurre, e far tradurre, in orientamenti politici pratici - quella centralità.

Pasolini si pone il problema della lingua ancora una volta in termini alti e preveggenti.

In ogni dialetto vi è “la possibilità di una lingua”; una ricchezza da coltivare, che “può divenire lingua poetica […] se non amministrativa e giudiziaria”: ipotizzando una pluralità di livelli della difesa e promozione di queste ricchezze che sono le lingue locali.

Viene da pensare, quale esempio del raggiungimento del livello amministrativo-giudiziario, al catalano (che Pasolini coglie, in quegli anni dei suoi esordi poetici, citando Carles Cardo) o al bilinguismo altoatesino-sudtirolese. In negativo, con riferimento al lombardo occidentale, la verità di quelle affermazioni si coglie nel confronto tra il diverso uso del dialetto nel versante italiano e in quello svizzero dell’Insubria (al quale la prima raccolta di poesie di Pasolini, Poesie a Casarsa, pubblicata nel 1942 è legata dall’uscita della recensione di Gianfranco Contini sul Corriere del Ticino ).

Nel Ticino il dialetto è in uso nell’amministrazione non in quanto lingua ufficializzata, ma perché comunemente e spontaneamente usata nei rapporti: ci si rivolge all’agente di polizia in dialetto, si entra in un ufficio pubblico ed è normale parlare il dialetto come lingua viva.

Di più: “nella Svizzera Italiana […] il dialetto è conservato come un carattere etnico fondamentale” .

La piccola riflessione provocatoria incombe: se si entrasse in un ufficio pubblico, in un comune dell’Insubria italiana e si volesse parlare dialetto, si verrebbe guardati come marziani: e non perché l’impiegato provenga dal meridione d’Italia, non cadiamo in questa falsa prospettazione: la stessa reazione proverrebbe dall’impiegato di origine locale.

Per una o due generazioni è stato commesso, quanto al lombardo occidentale nell’Insubria italiana, un errore drammatico, pensando che parlando dialetto ci si sarebbe socialmente impoveriti – e imponendo ai bambini di parlare italiano (fosse pure un tagliano raffazzonato) - mentre era vero il contrario; con questa scelta si è infatti creato un vuoto culturale e linguistico, ben presto riempito dall’italiano povero-televisivo e, in prospettiva, da un international english, lingua di puro scambio, ancor meno idonea ad esprimere concetti e sentimenti.

Sull’ipotesi del multilinguismo ricco, implicitamente suggerita da Pasolini, è dunque prevalsa una deriva verso il Newspeak orwelliano , che riduce le possibilità di estensione ed intensità del pensiero.
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