Munch 1863-1944, a Roma, al Vittoriano

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Nina@
00venerdì 8 aprile 2005 17:38
I “colori” dell’inquietudine.
Paola Casella

”Non dipingo quello che vedo, ma quello che visto”.
Edvard Munch

In questa frase, volutamente sgrammaticata (anche nella lingua originale), più attenta ad evocare uno sgomento emotivo subcosciente che una riflessione passata attraverso il filtro (sporco) del cervello, c'è molta della ragione d'essere di Munch e della sua necessità di esprimersi come artista, e c'è anche un esempio, letterario invece che pittorico, della sua capacità di parlare direttamente alle parti più nascoste di noi, seguendo solo apparentemente le regole lessicali, e inventandosi invece un linguaggio la cui potenza innovativa è dimostrata non tanto dal successo che l'artista norvegese ebbe in vita, quanto dall'influenza che egli esercitò sulle generazioni a seguire.

"Dovevo cercare un’espressione per ciò che agitava il mio spirito”, scrisse Munch, e ciò che agitava il suo spirito era un'inquietudine profonda, un'attrazione macabra (ma mai morbosa) verso la malattia e la morte, e verso la sessualità come fonte di profondo disagio. Munch voleva - doveva - rappresentare il dramma dell'esistenza umana (o l'esistenza umana come dramma), gettando lo sguardo (il suo, e il nostro) dentro l'orrido che a volte si spalanca nelle nostre esistenze o anche solo (?) nel nostro animo profondo. Per questo i suoi dipinti provocano in noi contemporaneamente attrazione e repulsione, come un brutto incidente dal quale non riusciamo a staccare lo sguardo, arrivando a coglierne anche la bellezza, al di là dell'orrore.

La mostra "Munch 1863-1944", al Complesso del Vittoriano di Roma fino al 19 giugno, attraverso pitture ad olio, acqueforti, litografie, xilografie e ritratti fotografici racconta lo sguardo apparentemente torbido, e invece lucidissimo, dell'artista, la sua intensità ossessiva, la sua condanna a rappresentare la vita attraverso il suo contrario. Nel raffigurare i suoi soggetti nel momento della loro massima vulnerabilità fisica e psicologica non c'è la tentazione del sensazionalismo, ma un bisogno, anche quello ossessivo e ossessionato, di verità - un'ossessione anche culturale, secondo la tradizione nordica: dopotutto da lì veniva Severino Kierkegaard - che costringe l'artista a un estremo rigore, a una rincorsa continua dell'onesta espressiva. Il che contribuisce a spiegare perché Munch abbia spesso riprodotto lo stesso soggetto per approssimazioni successive, e abbia abbandonato molte sue opere ad uno stadio incompiuto: non, come avevano insinuato alcuni critici suoi contemporanei, per una mancanza di coraggio espressivo, ma per un rifiuto di trasformare l'approssimazione sincera in falsa certezza.

Sarebbe troppo facile raccontare Munch come un artista interamente spiegabile attraverso la sua colorita biografia. "Fragile di nervi, alla ricerca del piacere fino all'estremo, purosangue aristocratico”, come lo descrisse un altro critico della sua epoca, con malcelata spocchia, Edvard Munch apparteneva all'alta borghesia norvegese, e godette di tutti i vantaggi della sua condizione sociale - in particolare, la possibilità di studiare arte nelle capitali dell'epoca - finché i suoi demoni interiori non ebbero la meglio anche sul suo stile di vita. Notoriamente refrattario ai contatti sociali, al limite della misoginia, Munch fu vittima consenziente di innumerevoli e devastanti frequentazioni femminili e degli eccessi del bere, subì spaventosi tracolli economici, e dovette confrontarsi ripetutamente con quella sindrome depressiva della quale era stato già preda suo padre prima di lui.

Sarebbe facile dunque interpretare la sua opera come una forma di autobiografismo ossessivo, o addirittura di narcisismo portato all'eccesso. Eppure anche i suoi numerosi autoritratti (la collezione di fotografie che lo raccontano dalla giovinezza alla vecchiaia è la vera sorpresa della mostra) non si limitano a descrivere un'individualità ma aspirano all'universale, alla condivisione di una condizione che, secondo Munch, è umana, mai solamente personale. Così nelle bellissime fotografie dell'uomo che da giovane appare appena sullo fondo, attraverso vetri, cortine, figure femminili, e poi si offre all'obbiettivo a volto nudo, senza più nascondere la rabbia e l'impotenza di fronte alla crudeltà del vivere, non c'è autocompiacimento ma un disperato invito a riconoscere i segni visibili di un'inquietudine che fa parte di ognuno di noi, e nella quale, volenti o nolenti, ci dobbiamo specchiare.

Tutta l'opera di Munch, come scrive Maria Teresa Benedetti nel suo saggio "Il colore dell'anima", incluso nel catalogo di presentazione della mostra al Vittoriano, narra la "costruzione di un linguaggio, che diventa sempre più paradigmatico di un sentimento universale... un linguaggio potente ed autonomo, che diverrà per l’artista strumento di indagine delle esperienze psicologiche del profondo". "Munch", scrive ancora Benedetti, "traccia una sorta di autobiografia dell’anima per immagini".

Lui stesso del resto spiegava che i suoi quadri raffiguravano “intenzioni, idee, tentativi, cose non spiegate, concetti che non hanno ancora preso forma”. E la forma delle cose, dei paesaggi, delle persone, trasformati in figure geometriche e linee contorte, parla di disagio, di tormento, di angoscia esistenziale.

Il soggetto più famoso dell'artista norvegese, "L'urlo" (la mostra del Vittoriano ne esibisce una litografia) più efficacemente riassume la volontà di Munch di restituire intatta a chi guarda la sensazione di angoscia allo stato puro. Così l'artista racconta la genesi di quel ritratto emotivo: “Camminavo lungo la strada in compagnia di due amici, il sole calava, il cielo divenne improvvisamente rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai contro un parapetto, stanco da morire, sulla città e sul fiordo di un blu scuro c’erano sangue e lingue di fuoco, i miei amici si allontanavano, io tremavo di angoscia, e sentii un lungo urlo infinito attraversare la natura.”

"Munch cercò di dare forma al mondo invisibile della psiche, ma senza cercare l'unità tra forma e significato", scrive Øivind Storm Bjerke nel saggio "Il maestro del 'non finito'", anch'esso incluso nel catalogo della mostra. Se c'è un linguaggio iconografico al quale l'artista norvegese attinge, è quello dell'incubo, paradossalmente riconoscibile da tutti, anche se ognuno di noi lo ricorda come un'esperienza privata, chiusa dentro un universo involontario dentro il quale ci sentiamo completamente soli.

Certamente Munch non fu un caso isolato, fu figlio del suo tempo, dei fermenti ideologici, filosofici, espressivi che lo precedettero, e che lo avrebbero accompagnato e seguito. La mostra al Vittoriano racconta efficacemente anche il percorso dell'artista attraverso il suo tempo, attraverso influenze e tentazioni, sperimentando sempre, non solo a livello tecnico - nel campo della grafica, del disegno, della pittura, della fotografia, della scrittura - ma anche a livello narrativo. " Nella storia dell'evoluzione dell'arte europea", scrive Storm Bjerke, "Munch non è un innovatore ma un eclettico che sperimentava codici già collaudati, dando loro nuove valenze".

"Munch compie i primi passi del suo percorso artistico nel ristretto ambiente culturale di Christiania (che nel 1925 diventerà Oslo), per poi procedere attraverso le esperienze dell’avanguardia francese, da cui trarrà quegli stimoli che faranno di lui un precursore, diventando così, a sua volta, una fonte di ispirazione", racconta Storm Bjerke. Fondamentale la parentesi Impressionista, ben documentata dall'esibizione romana, e la scoperta di Van Gogh, dalle cui linee contorte e scalpellate ("Notte stellata" è del 1889, "Campo di grano con corvi" del 1890) derivano direttamente le curve concentriche e le linee ossessivamente parallele de "L'urlo" (1895). Importanti anche i soggiorni berlinesi di Munch, non solo per lui, ma anche per i suoi sucessori. Come scrive Benedetti, l'artista "trasmetterà la gestualità, il fermento della materia, lo spazio incombente delle sue opere a larga parte della pittura della seconda metà del secolo, dall’Informale, all’Espressionismo astratto, alla Transavanguardia.



"Munch 1863-1944",
dal 10 marzo al 19 giugno 2005.
Complesso del Vittoriano,
via San Pietro in Carcere (Fori Imperiali), Roma.
La mostra è curata da Øivind Storm Bjercke e Achille Bonito Oliva.

Orari: lunedì-giovedì, 9:30-19:30, venerdì-sabato, 9:30-23:30, domenica 9:30-20:30.
Ingresso: intero €9 - ridotto €7.
Informazioni: tel. 06-6780664.
Catalogo: Skira.









Nina@
00venerdì 8 aprile 2005 17:43
Forme di dolore insite nella vita stessa
Achille Bonito Oliva


L’accesa manualità dell’arte alla fine del XIX secolo, la curiosità per le arti minori e le culture primitive sono la risposta a un contesto avviato sempre più verso la riproduzione meccanica non soltanto dell’immagine ma anche del comportamento standardizzato dell’uomo.
All’impersonalità entusiasta dell’impressionismo avevano già dato risposta Van Gogh e Gauguin: a questi artisti, oltre che a Toulouse-Lautrec, si aggancia il lavoro di Eduard Munch (1863-1944) , e poi degli Espressionisti, che riporta sulle motivazioni del soggetto la sostanza morale del bisogno creativo.

Un bisogno accentuato dall’urgenza di ripristinare una lacerata centralità dell’individuo mortificata dallo sviluppo dell’industrializzazione e dall’abnorme crescita della città, agglomerato artificiale rispondente soltanto a motivazioni produttive ed economiche. La città è il teatro della messa in posa sociale dell’uomo che indossa le maschere della convenienza e dell’ipocrisia, dell’affettazione e della repressione.

Verso l’abnormità di questa realtà l’artista si sente minore sul piano della quantità sociale che invece accetta supinamente il grado negativo dell’esistenza, maggiore sul piano della qualità morale in quanto capace di ripristinare le ragioni del soggetto seppure ferito e dissociato per un paradossale eccesso di consapevolezza e di sensibilità. Per far questo l’artista adotta una strategia particolare, quella dell’enfasi espressiva capace di dilatare al massimo la presenza del soggetto: l’urlo munchiano (virtualmente pronto alla riproduzione modulare anche nelle affiches del XXI secolo) contro il silenzio supino della società e il mistero dell’universo che accoglie nello stesso tempo l’innocenza maligna della natura e le contraddizioni della storia, la melanconia dell’adolescenza già minacciata dall’ombra sospetta di un futuro incombente. La perplessità della figura ricorda Degas. In ogni caso l’urlo resta l’emblema iconografico che conferma la sentenza di Schopenhauer: “Il mondo stesso è il Giudizio Universale”.
Una sorta di procedimento di irradiazione narcisistica esasperata dal soggetto sull’oggetto, sull’opera realizzata, presiede la creazione, una regressione allo stadio elementare dell’infanzia, anche a quella dell’umanità rappresentata dalle culture primitive, che permette l’uso e il piacere di una manualità che riduce ogni complessità a uno stadio essenziale. Ma tutto questo non è il frutto di un atteggiamento artefatto, ma è la conseguenza di una condizione sentimentale che non permette alternative se non quella di un’espressione artistica, capace di produrre riparazione.

In tal modo Munch, ristabilisce un’attenzione del mondo su di sé, che altrimenti non ci sarebbe. La naturalezza del soggetto viene ristabilita mediante il recupero di un linguaggio, quello dell’arte, capace di rappresentare la posizione asimmetrica dell’uomo fuori da ogni verosimiglianza. Una salda coscienza metalinguistica presiede la sua arte, consapevole della specificità dell’esperienza creativa che adotta tecniche che certamente non sono quelle della vita. Anche l’enfasi diventa dunque il travestimento necessario per ingrandire le istanze e i bisogni di totalità che la realtà tende a negare.
Infatti la concezione dello spazio, pittorico o grafico, è sempre saldamente bidimensionale, sbarrata a ogni tentazione di rappresentazione naturalistica. L’alterazione enfatica del segno rispetta la conformazione di uno spazio che non cerca l’illusione della duplicazione delle cose. Lo spazio è introspettivo e come tale non ha bisogno di altra profondità che non sia quella bidimensionale della tela o del foglio. Le asimmetrie dell’emozione e della nostalgia trovano nella lingua dell’arte i segni naturali della propria messa in scena.

Qui messa in scena non significa mistificazione o alterazione, semmai passaggio sotto una lente di ingrandimento capace di evidenziare motivi di profondità che nessun altro mezzo di riproduzione è capace di fare. Ai mezzi riproduttivi di una società frutto di cultura positivistica, Munch contrappone quelli tradizionali dell’arte che riafferma la propria centralità che il momento storico tende a negare. Paradossalmente, sotto l’uso regressivo dell’enfasi espressiva, cova una grande consapevolezza culturale che porta a un intreccio con le scienze umane, la psicanalisi e l’antropologia, culturale, seppure realizzato spesso per sintonia e istinto verso il teatro: Ibsen e Strindberg per i quali realizza manifesti per le loro pieces teatrali.

L’arte diventa la fondazione di un modello liberatorio che ripara le ferite ed esalta i motivi proliferanti della profondità della psiche, strutturata sugli stessi principi organici della natura; nello stesso tempo ripara anche violenze e soprusi della storia che ha emarginato culture come quelle primitive, colpevoli di essere portatrici di differenza. L’etnologia e l’antropologia si sviluppano infatti anche sotto l’effetto di questo senso di colpa della cultura occidentale. L’arte compie un giro a trecentosessanta gradi su tutta la storia della creatività e accoglie nel proprio bagaglio il linguaggio animistico dell’arte primitiva.

“Ai loro tempi i nostri antipodi di ieri, gli impressionisti, avevano perfettamente ragione di concentrarsi sui germogli, sul sottobosco delle apparenze quotidiane. Ma il nostro cuore che batte ci spinge giù, nella profondità della terra primordiale. Ciò che poi cresce da questo scavare — lo si chiami come si vuole, sogno, idea, fantasia — è da prendere sul serio solo quando viene interamente dedicato, con i mezzi figurativi appropriati, all’atto della creazione artistica. Allora quelle curiosità diventano realtà, realtà dell’arte, che rendono la vita un po’ più ampia di quanto normalmente appaia. Poiché esse non solo riproducono con più o meno temperamento cose viste, ma rendono visibile ciò che è stato scoperto in segreto” (Paul Klee).

Munch sta nella coscienza della propria minorità rispetto alla brutale e banale maggiorità del mondo visibile, adotta lo stile, come modo di essere, dell’enfasi capace di auscultare le profondità; un procedimento di dilatazione psicologica, attraverso l’adozione di tecniche artigianali che non a caso possono ricordare il medioevo, per l’identità religiosa dell’arte e lingue primitive, adatto a segnalare l’emergenza sentimentale di un soggetto negato come totalità. Le tecniche artigianali di riproduzione dell’immagine, come la xilografia, rifondano l’unità del processo produttivo messo in crisi dall’avvento della macchina che tende a parcellizzare il lavoro e a standardizzare il prodotto. Il recupero dell’arte primitiva permette di introdurre nel tessuto del linguaggio espressivo modalità ulteriori capaci di dare energia nuova a un apparato e a un alfabeto ormai logorato e messo in crisi dall’avvento delle tecniche di riproduzione meccanica del segno.

All’artificio di tali tecniche riproduttive l’arte di Munch risponde con la naturalezza dei procedimenti artigianali e con la naturalezza di un linguaggio che asseconda la natura sentimentale del soggetto creativo, il quale cerca forme espressive non paralizzati ma semmai flessibili e armoniche con i propri bisogni. All’anemia di una realtà incolore l’artista risponde con la rappresentazione di un’altra malattia, quella dell’esuberanza, attraverso cui compensare la sproporzione quantitativa che lo sovrasta. La temperatura incandescente dell’opera gli dimostra come l’arte è un procedimento che, pur adottando proprie regole interne e specifici linguaggi, crea dei varchi nell’opacità del quotidiano e introduce una diversa visibilità del mondo.
La visione antinaturalistica del mondo è proprio il sintomo di una mentalità si pone in completa alternativa, in una contrapposizione radicale ed eclatante. Uno stato di ipersensibilità arma la mano dell’artista che si inabissa prima dentro di sé all’interno delle proprie pulsioni, e poi riemerge nella zona solare della forma dove tutto diventa rappresentazione e nulla resta taciuto.

Lo stile dell’enfasi dà continuità a tale procedimento, dà voce e notizia a ciò che altrimenti resterebbe interiore e represso, fonda la possibilità di uno scambio, seppure con toni alterati, rappresenta una condizione di impossibilità non soltanto sociale. L’impossibilità riguarda lo stato dionisiaco, che sfiora per esaltazione anche lo statuto della morte, adottato dall’artista che mediante la sensazione forte della creatività altera il ritmo ripetitivo dell’esistenza standardizzata. L’arte è l’unica maniera di spingere la vita verso una condizione di impossibilità, per smascherarne gli angoli morti e di inerzia.

Il pensiero forte che attraversa l’arte trova la sua radice nel pensiero filosofico di Nietzsche, di cui adotta anche la struttura a frammento. Come il filosofo tedesco procede ad aforismi, così gli artisti adottano un’idea di spazio scheggiato ed esploso, sottoposto a molte torsioni e tensioni che rimandano a uno spazio non tipologico ma psicologico, che tende a uscire da ogni orbita delimitata dalla cornice. L’opera diventa una rotta di combattimento e di contrasti, fuori da ogni speranza di armonia e di quiete.

Munch diventa l’eroe che si autorizza tutto da solo a usare armi impari, a produrre colate di immagini che entrano nelle fessure del mondo. L’autorizzazione ha una sostanza morale e non di puro arbitrio, in quanto l’artista sa di possedere un deterrente e un deposito di visioni che egli intende mettere a disposizione del corpo sociale. Da qui la violenza, non soltanto del segno, necessaria per spostare l’inerzia del corpo sociale dal piano orizzontale e statico della convenzione razionale a quello inclinato e dinamico della visionarietà e di una visibilità spirituale.
La frammentarietà è il sintomo di una mentalità che non vuole opporre a un ordine un altro ordine, che non vuole creare una simmetria tra la necrofila convenzione sociale e la morte di una nuova forma seppure artistica. Al contrario, essa è il segno di un universo linguistico aperto e continuamente arricchito dalla conflittualità permanente, quella di una sensibilità neoumanistica che vuole ridare centralità all’immaginario.

Qui l’immaginario attraversa tutte le culture e non si arresta davanti alle rimozioni di quella occidentale, anzi nella coscienza della propria minorità trova solidarietà in altre culture ritenute minori o minorizzate dalla superbia logocentrica di quella europea.

In definitiva la lingua dell’arte è l’unica in grado di formulare parole visive capaci di attraversare ogni differenza etnica, sociale e religiosa, in quanto essa stessa si pone nella condizione di poter totalizzare dentro di sé ogni possibilità e ogni impossibilità. I modi sono quelli di un linguaggio che accetta ogni contaminazione e non crede più ai piani alti e bassi della cultura, che vuole colmare ogni scissione. Per farlo Munch adotta lo stile della scissione, la frantumazione del segno, l’alterazione dell’eleganza e del garbo, accetta l’accento forte di un’espressione che vuole farsi sentire in tutte le sue lacerazioni.

Enfatizzare significa compiere una sana operazione di regressione infantile che consiste nel porre il proprio io al centro del mondo, in un contesto che ipocritamente sembra invece celebrare il mito collettivo del noi. La forza sta nel non aver posto un io monumentale e monolitico, dunque adulto, ma alterato da tensioni centrifughe capaci di spostarlo fuori dai luoghi della ragionevolezza e verso territori abitati dal terrore e dalla nostalgia.

Tale nostalgia, confinante col sospetto di una possibile interezza, fonda la sostanza morale di Munch, che non ha mai spinto il suo furore nella direzione del nichilismo, ma sempre della rifondazione, seppure attuata attraverso i modelli del linguaggio creativo.

Il delirio è stato quello di tentare una umanizzazione della società mediante la contrapposizione della ragionevolezza dell’arte, lo stile dell’enfasi come essere ed esistere, alla razionalità di una civiltà indisponibile a sentire altre “ragioni” e pronta invece a morire sotto i colpi della propria.
Così l’immagine si costruisce a balzi, fuori dalla retta del progetto e dentro il sentiero accidentato di numerose riprese stilistiche che privilegiano la linea curva e continua dell’Art Nouveau e la spirale simbolista che apre alla Secessione. La ripresa permette il recupero di inattualità stilistiche che entrano in collisione con altri stilemi che invece appartengono alla sensibilità del momento storico dell’artista.

Munch ha un’idea del tempo circolare, un movimento di corso e ricorso fuori da ogni prospettiva lineare. Comprende anche il fattore atmosferico che con i suoi accidenti modifica le opere da lui stesso lasciate alle intemperie. In questo senso egli assume l’immagine come coagulo di molti flussi, come punto di emergenza di innumerevoli spinte che guidano l’impulso creativo. L’opera è il frutto di una elaborazione che ritrova l’etica di un tempo esecutivo artigianale, specialmente per quanto riguarda l’ornamentazione, perduto nei procedimenti produttivi della civiltà tecnologica.

La discontinuità della sensibilità comporta anche la produzione di una immagine che assume i travestimenti della figurazione, dell’astrazione, l’opulenza del colore e la sinuosità del disegno, senza mai arrivare ad una cifra standardizzata. L’opera risponde sempre all’esigenza dell’occasione irripetibile, perché irripetibile è la relazione mobile dell’artista con i propri strumenti espressivi. Tale carattere fonda un’ulteriore inattualità dell’opera che non conosce uno stile tutto legato al presente dell’artista, il quale orchestra con grande decoro un linguaggio in cui, come dice Hermann Broch, si dà a vedere “il mostro di un’agonia nella quale il tempo va in rovina”.

L’agonia presuppone una durata più che una interruzione, una transizione ed una serie di passaggi, attraverso stati diversi. Ecco che Munch rappresenta tale transizione mediante l’ancoraggio dell’opera ad una oscillazione tra due polarità: descrizione e decorazione sono le cifre che adornano l’opera portandola fuori dal luogo obbligato di una funzione a senso unico. La descrizione è il portato di una tensione che tende a presentarsi nel tono dell’affabulazione, di una esplicitezza figurativa che vuole catturare l’attenzione in un punto, in quella che Heidegger chiamerebbe la località, la concentrazione dell’immagine. La decorazione è il segno di uno stile .che trova nell’astrazione e nella ripetizione di motivi il modo per creare un campo di fascinazione e di indeterminatezza che non vuole imporre il proprio senso, quello che Heidegger chiamerebbe contrada.
L’opera di Munch gioca dunque tra località e contrada, tra concentrazione figurativa e deconcentramento astratto.

Gombrich stigmatizza l’affermarsi dell’ornamentazione tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento come tentativo di spostare l’attenzione verso i margini dell’opera. Infatti l’artista viennese tende a centralizzare ciò che prima era oggetto di un’attenzione laterale: la decorazione. Se il mondo non ha più centro, se non esiste una gerarchia capace di segnare i confini tra centro e periferia, allora Munch concepisce l’opera come luogo dell’omologazione tra le due dimensioni. La figura perde i suoi contorni netti e si apre verso la periferia fuori dal proprio nucleo, mediante lo sfondamento, la collocazione della figura in un ambito bidimensionale in cui primo piano e sfondo giacciono sulla stessa linea.

L’immagine è il prodotto dunque di questa necessaria indecisione, tra località e contrada, tra centro e periferia, tra figurazione ed astrazione, tra descrizione e decorazione: per questo non veicola un significato forte, ma anche quando è il risultato di una condensazione simbolica, il portato di un’idea.

Destituita del suo consueto funzionamento, quello di veicolo di senso, l’opera di Munch acquista l’arbitrio e la necessità di essere capriccio, descrizione di stati interni della sensibilità, che non significa però condizione psicologica. Un distaccato erotismo che confina con l’estetismo regge la composizione. Il suo dato esplicito è reso dalla miniaturizzazione dell’evento ornamentale che avvolge la figura e la fa dilagare verso i bordi dell’opera, creando una connessione ed un processo di crescita che agisce in tutte le direzioni della composizione. Fisso e centrale resta il volto, disegnato e dipinto in maniera decisa e precisa, mentre il corpo è attraversato da una perturbazione stilistica che ne dissolve i contorni e ne stabilisce l’integrazione con lo sfondo.

Se l’erotismo è proverbialmente espansione ed integrazione con l’altro, se confina con i ritmi di sviluppo della natura, quello di Munch si manifesta come proliferazione stilistica e formale, come movimento che non ha l’energia storica per attingere alla profondità, in quanto un esaurimento storico ha depurato il linguaggio da ogni valenza ideologica a favore di un uso scorrevole ed intrecciato. Il dato implicito di tali erotismo ed estetismo è l’impiego dell’opera come luogo di continui slittamenti del significato, una catena inarrestabile che segue il viaggio dell’immagine attraverso peripezie leggere ed intense dello stile. Scatta allora un’inversione da una posizione tradizionalmente metaforica ad una specificamente metonimica, destituita della sua valenza simbolica.

L’immagine viene impiegata attraverso la neutralizzazione del suo significato forte, come occasione di una rappresentazione in cui figurativo ed astratto si pareggiano, in cui prevale heideggerianamente l’essenza decorativa e periferica dell’arte, memoria dell’impulso vitale tramutato in durata stilistica.

In Munch la durata stilistica dell’opera è direttamente collegata con la sua idea del tempo e della storia, in cui non esiste svolgimento lineare, semmai circolare e ripetitivo. Così l’immagine sconfina nella decorazione e nell’ornamento che, per definizione, è il prodotto di una ripetizione. La figura, in prevalenza femminile, parte da un punto fermo, la testa, e poi subisce una sorta di corruzione stilistica capace di integrarla con lo spazio circostante. L’opera si presenta con un risultato volutamente disomogeneo, aperto al colore ed al segno figurativo ed astratto. Il principio di piacere man mano sostituisce il principio di realtà nel farsi dell’opera, luogo di una rappresentazione opulenta che non gioca al risparmio ma allo spreco stilistico.

La continuità bidimensionale di stili diversi produce una catena di immagini operanti sullo spostamento e sulla progressione, che non è mai progettata ma fluida e sorgente dall’edonismo della creazione. In ogni caso l’immagine oscilla sempre tra convenzione ed invenzione. La convenzione è il momento di assunzione del linguaggio figurativo, di uno stile di cui l’artista recupera non il senso ma il segno, il suo livello di superficie. L’invenzione scatta attraverso l’accostamento imprevedibile di differenze stilistiche ed assonanze linguistiche che non suscitano lacerazione nell’immagine, non determinano campi di perturbazione visiva ma di integrazione sofferta con la natura e il mondo. L’arte: forme di dolore insite nella vita stessa.

L’opera è un microevento che parte sempre più dall’interno dell’immagine, centro di irradiazione della sensibilità dello stile che dipana e coniuga le proprie modificazioni dentro la cornice articolata dell’imma-gine. Perché l’opera non è mai un mosaico di forme ma resta un’immagine, in quanto risultato di una metamorfosi interna dello stile che considera lo spazio pittorico come un potenziale luogo di estensione e di alterazione, che funziona nel senso di una attenuazione del significato nello sposta–mento della carica metaforica verso l’inerzia metonimica.

L’opera finalmente perde la sua compostezza tradizionale, la rigidità di un’arte come unità ideale garantita dallo stile. L’immagine è il risultato di una tensione tutta giocata su di una peripezia di piacere che arriva ad un punto di estenuazione tale da assottigliare la consistenza figurativa ribaltandola in una trama astratta. L’uso della metonimia permette all’immagine di assumere un senso mobile che sorge progressivamente dall’economia interna del linguaggio, mediante assonanze visive e pas–saggi di segni che connotano lo spazio come campo, luogo potenziale di relazioni mobili.

Il significato viene stordito, attenuato e reso relativo, attraversato da turbolenze del segno e di un colore improbabile. Da qui in fondo l’estenuato carattere dell’opera che non parla più perentoriamente e non erge le proprie spoglie sulla fissità ideologica di una visione monolitica, ma si scioglie nella disseminazione di molte direzioni. Dopo, tutta la Secessione ha posto il proprio lavoro sotto il segno di una ineluttabile astrazione, come perdita progressiva del senso, come assenza di una motivazione centrale della vita. Da qui il capriccio, l’opulenza, la alterazione di un linguaggio che mima la gratuità dell’esistenza, l’improbabilità di ogni progetto.

L’animalità della vita è ormai un sogno perduto e dunque è possibile viverla soltanto attraverso le mentite spoglie della forma. L’opera di Munch è la rappresentazione di spoglie stilistiche, in cui non esistono passato e presente ed ogni tempo è pareggiato nella visione superficialista di un linguaggio raggomitolato e espanso divenuto esso stesso ombra ed eco di un centro perduto. Come dice Gianni Carchia, l’opera non ha più cornice, perché è interamente e solo cornice. L’immagine ha prodotto uno sfondamento verso la periferia, una crescita che la porta fuori dalla staticità del centro e dunque verso l’impossibile architettura della vita.



Tratto dal catalogo della mostra
"Munch 1863-1944",
dal 10 marzo al 19 giugno 2005.


RedPorsche
00sabato 9 aprile 2005 13:54
The day after ....
Questo e uno dei miei preferiti

Gimli
00lunedì 11 aprile 2005 18:13
Il mio preferito è questo:

Nina@
00lunedì 11 aprile 2005 22:45
Re:

Scritto da: Gimli 11/04/2005 18.13
Il mio preferito è questo:




MAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAX..........
Gimli
00martedì 12 aprile 2005 00:03
[SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828] [SM=g27828]
RedPorsche
00martedì 12 aprile 2005 11:00
Re:

Scritto da: Gimli 11/04/2005 18.13
Il mio preferito è questo:



[SM=x131363] [SM=x131345]
Nuer
00mercoledì 11 maggio 2005 21:21

Io sono andata a vedere la mostra di Munch un paio di settimane fa e mi sono innamorata di questo quadro...
LestatNotturno
00sabato 10 dicembre 2005 13:55

Purtroppo io non riuscii a vederla... di Munch apprezzo diverse sue opere... un giorno spero...



1890, olio su tela, cm.64.5x54, Nasjonalgalleriett, Oslo.


... spero un giorno di osservare questo capolavoro con i miei occhi...

Lestat de Lioncourt
[SM=x131384]
Thishar
00giovedì 15 dicembre 2005 06:47
io ci andai, e rimasi stupita di scoprire un artista che credevo di conoscere e in realtà ignoravo, i suoi periodi impressionisti non sono paragonabili a nessuno...se poi si pensa alla sua maniacale attenzione per determinati luoghi.. strano essere, come ogni artista via...
LestatNotturno
00sabato 17 dicembre 2005 11:27
Re:

Scritto da: Thishar 15/12/2005 6.47
io ci andai, e rimasi stupita di scoprire un artista che credevo di conoscere e in realtà ignoravo, i suoi periodi impressionisti non sono paragonabili a nessuno...se poi si pensa alla sua maniacale attenzione per determinati luoghi.. strano essere, come ogni artista via...



Milady Thishar, personalmente non mi entusiasmava Munch all'inizio... anche perchè di questo artista... viene associato solo il suo famoso...



poi mi imbattei per puro caso in altre sue opere... e l'interesse per quella sua attenzione particolare quasi maniacale... quegli sguardi di viso... quell'accostamento di colori... mi attirò a se... con un inchino ti porgo il mio saluto...

Lestat de Lioncourt
[SM=x131343]
LestatNotturno
00sabato 17 dicembre 2005 11:29
La tempesta



La tempesta
1893
olio su tela; 91,8 x 130,8
New York, Museum of Modern Art


Un gruppo di donne davanti a una casa illuminata si protegge dal rumore del vento notturno che scuote la natura e le anime. Il quadro, dal simbolico titolo La tempesta, allude sia all’evento atmosferico sia a un turbamento interiore. Tutti i personaggi ritratti ripetono ossessivamente il gesto di coprirsi con le mani le orecchie, che è presente anche nel Grido e nella Madre morta e la bambina e che Munch usa come simbolo di un dolore intollerabile, di un urlo di angoscia che sale dal profondo dell’anima, ancora più terrificante del fragore che proviene dall’esterno. Le finestre illuminate sono un importante elemento pittorico e Munch accentua l’effetto grattando via il colore attorno ai quadrati gialli, che sembrano occhi che penetrano la notte.

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