Quest'opera, rappresentante un guerriero in punto di morte,è
la copia in marmo commissionata da Giulio Cesare per i suoi
Horti sul Quirinale: il celebre senatore repubblicano scelse
probabilmente questo soggetto in base a motivazioni
propagandistiche, vedendo in questa scultura una sorta di
simbolo rappresentante l'onore di quel vincitore che aveva
sconfitto nemici di tale coraggio.
il guerriero galata fa parte di una delle sculture in bronzo
che componevano un grande complesso scultoreo - donario
dedicato ad Atena Polias, posto sull'acropoli di Pergamo,
dopo la vittoria di Attalo Primo, Re di Pergamo dal 241 al
197 avanti Cristo, sui Galati della Mesia, una regione della
Persia.
il volto è modellato con estrema attenzione, rispettando
alla perfezione la tipica fisionomia dei Celti: labbra ben
disegnate e carnose dalle quali si intravede la dentatura
superiore; baffi e capigliatura sono folti e divisi in
ciocche, ma la rifinitura della capigliatura ispida sembra
quasi abbozzata, il naso è sottile, gli zigomi pronunciati e
gli occhi con spazio orbitale non caratterizzato.
il galata porta al collo un "torques" caratteristico
collare dei guerrieri di tale popolazione.
Il corno, nel quale egli ha forse soffiato dopo essere stato
colpito giace al suolo e fa pensare a Orlando, il
leggendario paladino di Francia che muore dopo aver suonato
l'olifante a Roncisvalle.
Vinto ed accasciato sullo scudo,con il torsoflesso e
ruotato verso destra a far risaltare l'incisione della
ferita,sapeva che non poteva sfuggire al suo destino, ed in
tutti i modi non voleva subire quella che per un guerriero
sarebbe stata la peggiore sconfitta, l’umiliazione, alla
quale sono già andati incontro i suoi compagni.
La statua del galata piacque enormemente ai romantici, che
credevano raffigurasse un gladiatore ferito a morte;come
tale fu del resto celebrata anche da lord Byron che la
descrisse così:
Davanti a me vedo il gladiatore caduto:
s'appoggia sulle mani - la virile fronte
l'angoscia domando la morte accoglie
e il suo capo piegato a rilento reclina
e l'estreme stille dal suo fianco sboccano
pigre dal vermiglio squarcio, ad una ad una
come le pigre gocce d'un temporale
[...] I suoi occhi
seguivano il cuore in terre lontane
non gli importava della perduta vita né del trofeo,
ma dove sorgeva la sua rozza capanna sulle rive
del Danubio, là dove giocavano i suoi giovani barbari,
là era la loro madre Dacia
(G. Byron, Childe Harold, canto IV, stanze 139-141)