Faroaldo
00mercoledì 7 luglio 2010 16:16
Ma gli italiani sono bianchi?
maggio 27, 2008 di Sergio Bontempelli
A quale «razza» appartevano gli italiani emigrati in America, a cavallo tra XIX e XX secolo? Erano bianchi o «negri»? Il colore della pelle non lascerebbe dubbi: gli italiani sono bianchi, lo sono sempre stati e naturalmente lo erano anche allora. Eppure scienziati sociali, uffici pubblici e autorità di polizia ebbero più di una perplessità sulla classificazione degli italiani. Le «diversità» – ieri razziali, oggi culturali ed etniche – sono spesso il prodotto di costruzioni sociali e di strategie politiche.
«Gli italiani sono bianchi»? Se torniamo indietro di qualche decennio, scopriamo che la risposta a questa domanda appare a molti tutt’altro che ovvia. Alla fine del XIX secolo, in particolare, il gruppo di antropologi positivisti raccolti attorno a Cesare Lombroso, Giuseppe Sergi e Alfredo Niceforo si convince dell’inferiorità razziale dei meridionali: così, mentre gli italiani del Nord discenderebbero da una «razza ariana» superiore, quelli del Sud avrebbero origini africane…
I meridionali sarebbero cioè quasi-negri: e per questo – ovviamente, dicono gli antropologi di quest’epoca – di razza inferiore. Non si tratta – si badi – di innocue controversie tra intellettuali rinchiusi in qualche aula universitaria: negli stessi anni, L’Illustrazione Italiana - prestigiosa e popolare rivista illustrata – invia i propri giornalisti nel “profondo Sud”, in visita ai selvaggi. «Per i campi ove interrogai parecchi contadini», spiega un cronista in un numero del 1893, «non trovavo che tipi spiccatissimi di derivazione africana» [citato in Thomas A. Guglielmo, "Nessuna barriera del colore". Italiani, razza e potere negli Stati Uniti, in J. Guglielmo e S. Salerno, Gli italiani sono bianchi? Come l'America ha costruito la razza, Il Saggiatore, Milano 2006, pag. 50].
Nel frattempo, i flussi di emigranti diretti verso gli Stati Uniti cominciano a modificarsi sensibilmente, e il mezzogiorno diventa il principale serbatoio di manodopera italiana. Oltreoceano, le autorità sono preoccupate, perchè gli italiani sono – notoriamente, si dice – potenziali delinquenti. E i meridionali fanno più paura, sembrano più selvaggi e incontrollabili. Così, già dal 1899 il Bureau of Immigration comincia a registrare gli italiani in base alla loro appartenenza razziale: da una parte i «settentrionali» che – per la gioia di Umberto Bossi – vengono classificati come «celtici» (!) -, dall’altra i «meridionali» cui invece viene affibbiata l’etichetta di «iberici» (!!). Un autorevole rapporto della Immigration Commission spiega, nel 1911, che i meridionali sono «emotivi, impulsivi, molto fantasiosi e privi di senso pratico», e soprattutto «scarsamente adattabili a una società fortemente strutturata» [T.A. Guglielmo, cit., pag. 50]. Sembra di sentire certi autorevoli esponenti politici di oggi, quando parlano di zingari o di rumeni…
Nel 1910, il Chicago Tribune invia nel Sud Italia un cronista d’eccezione, un antropologo: uno, insomma, che di razze inferiori se ne intende. Si chiama George A. Dorsey e visita un po’ tutte le regioni italiane, purchè si trovino a Sud di Roma. Dopo cinque mesi, l’illustre viaggiatore si convince non solo dell’inferiorità razziale dei malcapitati meridionali, ma persino delle loro «ascendenze negroidi».
Insomma, la bianchezza degli italiani, in questo periodo, è un fatto tutt’altro che scontato: le testimonianze citate ci dicono che sulla questione ci sono dubbi, perplessità, discussioni. Eppure – spiega T. A. Guglielmo – «malgrado queste importanti testimonianze, non bisogna porre eccessiva enfasi alla precarietà dello status relativo al colore degli italiani. I dubbi sul colore non portarono mai a collocare gli italiani tra i non-bianchi in modo sistematico e prolungato» [T. A. Guglielmo, cit., pag. 53]. Nel ferreo sistema razziale americano, gli italiani finiscono, certo, per essere discriminati, esclusi: ma in quanto bianchi, non in quanto negri. Il che significa che, all’interno della gerarchia razziale, gli italiani non hanno mai occupato l’ultimo gradino. Per loro fortuna.
Eppure, le curiose affermazioni circa il carattere «negroide» degli italiani dimostrano che l’evidenza somatica - essere bianchi o scuri di pelle – è, in larga misura, il prodotto di strategie socialmente costruite. Un esempio tipico della costruzione dell’evidenza è il cosiddetto «naso adunco» delle razze semite. Gli ebrei sono, dal punto di vista fisico, indistinguibili dagli «ariani»: eppure gli antisemiti vedevano il naso adunco in ogni ebreo. «Se l’altro dominato, inferiorizzato, discriminato (o inferiorizzabile e discriminabile) è del tutto simile al “noi”», spiega Anna Maria Rivera, «gli si attribuisce il naso adunco come tratto somatico che accomunerebbe l’intero gruppo cui appartiene o a cui è ascritto. Da allora in poi tutti vedranno il naso adunco in ogni individuo appartenente o ascritto a quel gruppo. La stessa percezione delle differenze somatiche è infatti influenzata dalla cultura, dall’ideologia e dal pregiudizio» [Rivera, A.M., Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia, Derive e Approdi, Roma 2003, pagg. 16-17].
Oggi, nessuno parla più di «razze» in senso biologico e genetico. Ma molti sono convinti dell’irriducibile diversità - e, qualche volta, della pervicace inferiorità – di alcune «culture» o «etnie». Tutti sanno, tutti «vedono» che la cultura degli zingari è diversa, arretrata, inferiore, incapace di adattarsi alle regole. Sarà mica come il naso adunco degli ebrei o il carattere negroide dei meridionali?